Quello che è successo a Genova in questi giorni può significare due cose: o che contro le forze della natura non si può fare niente oppure che l'umanità è sempre più vittima della sua stupidità.
Il problema non è l'aver stabilito, come vuole Wittgenstein, che se la gente non facesse cose stupide niente di intelligente verrebbe mai fatto: la questione è il saper calcolare la percentuale di cose stupide e di cose intelligenti che vengono ogni giorno dette e fatte. Se infatti le cose stupide fossero in misura minore di quelle intelligenti l'intelligenza prenderebbe facilmente il sopravvento fino ad annullare completamente la stupidità. E' vero quindi il contrario. L'umanità è condannata alla stupidità senza possibilità di resto. I francesi, sempre superiori agli altri in questo genere di calcoli e discussioni, hanno trovato brillantemente, per indicare la stupidità, il termine che più le si addice da un punto di vista umano: bêtise, comportamento o pensiero da bestia. Basterebbe farsi, credo, un giretto nel Larousse, o nel Littré. La bêtise è prima di tutto la più grande delle cose immense:
L'"idozia" umana è un abisso senza fondo, e l'oceano che vedo dalla finestra mi pare in confronto ben piccola cosa
(La bêtise humaine est un gouffre sans fond, et l'océan que j'aperçois de ma fenêtre me paraît bien petit à côté [Flaubert, Correspondence, 1875 - e credo, se non ricordo male, che si tratti di una lettera al suo amico Edmond Laporte, che lo aiutava in tutto, forse anche ad andare di corpo, e che Flaubert affezionatamente chiamava la sua soeur de charité - la sua Dama di san Vincenzo, quando non lo chiamava direttamente El Bab, traduzione araba di Laporte].
Ma incalcolabile è pure il numero di sciocchezze che albergano perfino nei pensieri di una persona intelligente:
Le nombre de bêtises qu'une personne intelligente peut dire dans une journée n'est pas croyable (Gide, Journal, 1940).
(Il numero di sciocchezze che una persona intelligente è in grado di dire in una giornata è incredibile).
Nel Diario dei Goncourt si era più
realistici riguardo alle dimensioni, meno visionari di Flaubert: la si connette, la stupidità, a un'idea di possesso, al
costruire (giustamente in quegli anni a Parigi si costruiva molto: tutto veniva raso al suolo per lasciar spazio ai grandi boulevards delle moderne democrazie):
Il y entre de prétendues idées fortes, qui font dire aux plus intelligents des bêtises grosses comme des maisons (E. et J. de Goncourt, Journal,1871).
(Entrano [nel cervello] delle idee a cui si dà il titolo di "idee superiori" che fanno dire ai più intelligenti delle stupidità grosse come delle case).
Ma per gli intellettuali, per i politici che sembrano sempre saper parlare, articolare i loro pensieri come se fossero appena usciti dalla stanza della maestrina, così come per la maggiornaza disarticolata sempre pronta a bersi tutto ciò che lo sciocchezzaio della politica mondiale produce e offre nessuno forse meglio di Rabelais, col suo bel francese del Cinquecento, con la sua contorta grafia, cadrebbe a proposito:
Je ne sçay quoy premier en lui je doibve admirer, ou son oultre cuydance ou sa besterye (Gargantua, 1, 9)
(Non so che cosa posso ammirare di più in lui, se la sua presunzione o la sua idiozia).
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domenica 12 ottobre 2014
lunedì 29 luglio 2013
“Fogna universitaria” e preterizione
Un bell’esempio di ciò che in retorica si chiama preterizione (il far finta di non voler dire una cosa per poterla dire ugualmente o per riportarla ironicamente - come quando si sentono frasi del tipo: ‘e non parliamo dei soldi che s'è fregato’; per non dire del suo caratterino ecc.) si può trovare in Plutarco,
nell’Eroticos, nel momento in cui
Flaviano, uno degli interlocutori del dialogo, dice a Autobulo (il personaggio
che dovrà riportare alcuni discorsi ascoltati a suo tempo sull’amore): “Tieni ora fuori dal tuo
racconto” (traduco un po’ liberamente dal greco) “tutto ciò che contiene descrizioni
di prati e di luoghi ombrosi tanto cari ai poeti, con i loro intrecci di edera
e rami di tasso e tutte quelle altre cose simili con le quali costoro si
sforzano di far propri – più illudendosi che ottenendo effettivamente qualcosa
di bello – l’Ilisso di Platone e quel suo agnocasto e quel declivio dolcemente
erboso”. È un riferimento al Fedro (il dialogo di Platone in cui si parla di
retorica e di amore), anzi una precisa descrizione del luogo dove Socrate e Fedro vanno a sedersi, le parole usate sono le stesse che nel dialogo platonico: l’erba, il dolce declivio,
l’agnocasto eccetera. Si potrebbe considerarlo una sorta di omaggio di Plutarco a
Platone – un riconoscere la grandezza di un maestro che ha scritto sull’amore
cinquecento anni prima; ma è anche nello stesso tempo uno strizzare l’occhio a chi dovrà o vorrà leggere, un volergli dire: ‘non ignoro
certo che prima di me c’è stato Platone, caro
lettore ipocrita, te che ti immagino pronto a
rinfacciarlo, tu che sei simile a me
.
Ricordo che anni fa un mio conoscente (oggi professore all'università) scriveva un articoletto da presentare a uno di
questi concorsi italiani tutti di facciata e col nome
del vincitore già deciso in anticipo (a patto ovviamente che il sempre nuovo predestinato non si dia la zappa sui piedi). E una sua amica
(all’epoca già professore) disse, vedendolo controllare e ricontrollare ossessivamente le bozze, gli disse con quell'aria da perfetta madreterna – ero io stesso presente: ‘Stai molto attento!’ … Un semplice consiglio, "amichevole", che direbbe poco o niente ai non addetti ai lavori, a chi non vive d'università: una galassia, questa, che in passato l’architetto
e urbanista Bruno Zevi, (lo stesso che lasciò l’insegnamento in forte
polemica col marciume “fascistoide” di destra di centro e di sinistra che imperava e impera tuttora nel baronato),
in un bellissimo e virulento articolo sull’architettura italiana intitolato Lineamenti di un’apologia del fascismo, chiamò apertamente “fogna universitaria”: una condanna in toto dell’accademia
e della neoaccademia, compresi concorsi e concorsini barzelletta. Da allora, da quando Zevi scrisse quella cosa, sono
passati più di trent’anni, e niente è cambiato se non in peggio, sicché almeno in questo il
presente equivale al passato.
Ignorando tale realtà, chiunque è fuori dal mondo universitario, chiunque cioè produce o fa muovere qualcosa di veramente concreto e utile al genere umano - l’operaio come il commerciante, i quali immaginano chissà quale bontà e quale incontaminato regno della "cultura" (hagnos in greco significa casto ma con diverso accento e senza aspirazione anche l'agnocasto del Fedro) - avrebbe difficoltà a intendere quella sorta di mafioso ammonimento (più che amichevole consiglio) a chi si
apprestava a partecipare a un concorso a ricercatore comunque truccato: “Stai attento!” Stai
attento a cosa? Stai attento a non fare errori: indica i "nomi e i lavori giusti", fai capire che conosci quanto è già stato scritto (dai membri di commissione) cita sempre l’ultima edizione di un’opera, mostrati
al passo con la ricerca – per quanto di vera ricerca nel mondo umanistico se ne faccia ben
poca e si sfornano solo articoli su articoli zeppi di errori concettuali ripresi tali e quali da altri che hanno scritto sullo stesso argomento e che a loro volta hanno copiato da chi li ha preceduti (pure da grossi nomi), senza mai nessun controllo né intervento critico, articoli e libri utili solo a far carriera e a nutrire lo spasmodico e smodato amor proprio di
chi li produce. In sostanza le idee contano poco: munisciti di un buon manualetto di
metodologia del lavoro scientifico e una volta trovato chi ti appoggia il gioco
è fatto.
Plutarco, che con la buona retorica oltre a divertirsi
divertiva gli altri, era lui stesso, da buon intellettuale, intrappolato duemila anni fa in questo ridicolo meccanismo tartufesco:
quello del rapporto col lettore ipocrita contemporaneo o a venire, cioè il lettore “colto”, quello che legge e ti critica
soltanto perché hai osato non fare un riferimento intelligente a ciò che è
stato detto prima di te, anche se ciò che ti ha preceduto è uno schifo illeggibile e risulterebbe uno schiaffo
all’intelligenza perfino il semplice riportarlo con ironia; e si tratta di un lettore che dà comunque per scontata la tua ignoranza (un po’ come
quella ragazza italiana che a Londra una sera mi corresse quando per gioco
dissi “andiamo tutti alla Tate”, e dissi Tate all’italiana invece che
all’inglese – ma valga per tutte quello che indirettamente rispose Proust a
Gide, che diceva di aver trovato “errori” ortografici nel manoscritto del Du coté de chez Swann: “il livello della nostra
cultura”, disse più o meno Proust, “non è tale da indurci a commettere consapevolmente
errori del tipo di quelli che ci vengono attribuiti’). Solo che Plutarco,
questi riferimenti al passato, alla sua cultura, li faceva appunto in modo più divertente, non senza un sorrisetto, prendendoti anche per i fondelli con questo meccanismo
della preterizione. Mentre nelle
università italiane (e non solo) di ironia non c'è traccia: e quando un
professore ha tra le mani un articolo di un collega, di uno suo pari, la prima cosa che fa va subito all’indice, per vedere se c'è il suo nome, se un qualche suo lavoro è stato citato; come seconda
cosa - invece di iniziare finalmente a leggere l’articolo - scorre velocemente le pagine per vedere se sono presenti le note e quante ce ne siano (cioè quelle stampelle senza le quali secondo gli universitari il testo da solo non può camminare, è cionco). E poi forse alla fine si decide a leggere. Così ancora un mio amico che si occupa di semiologia gregoriana anni fa presentò a un liturgista che dirigeva una rivista accademica, un articoletto su un frammento di pergamena usato come foglio di guardia di un libro antico – conteneva alcune righe di uno
dei sermoni di Leone Magno. E il liturgista non aveva nemmeno iniziato a guardare l’articolo che subito eclama: ‘ehilà ehilà ehilà (alalà),
dove sono le note?’ E quando questo mio amico me lo raccontò mi disse testuale: ‘mi
ripresi l’articolo e me ne andai, perché ti assicuro mi fece pena’. E in questo
caso, essendo quell’articoletto nient’altro che la pubblicazione di un
testimone inedito con varianti interessanti rispetto al testo conosciuto, non
so di che note quel liturgista parlasse. Al massimo serviva un piccolo apparato
critico di confronto con le lezioni degli altri manoscritti o famiglie
di manoscritti, cosa che nell’articoletto in effetti non mancava.
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