martedì 31 maggio 2016

Velocità dell'informazione e inutilità della specie umana

La sproporzionata estensione di uno stato e la potenza di mezzi di cui dispone non giocano necessariamente a favore in caso di un attacco nemico concentrato in un punto. La velocità delle informazioni toglie indubbiamente non poche speranze all'attaccante tuttavia la sorpresa può giocare ancora un ruolo fondamentale. E tanto più quanto più sarà necessario spostare enormi contingenti da una zona a un'altra. Insomma è sempre il tempo il deus imperans, e in ultima analisi la lentezza con cui gli uomini continuano a muoversi. Vedi quanto scrive duemila e cinquecento anni fa Senofonte nel primo dell'Anabasi, le marce sempre più forzate di Ciro per impedire che Artaserse raccolga  attorno a sé l'immensa forza di cui dispone:

νομίζων, ὅσῳ θᾶττον ἔλθοι, τοσούτῳ ἀπαρασκευαστοτέρῳ βασιλεῖ μαχεῖσθαι, ὅσῳ δὲ σχολαίτερον, τοσούτῳ πλέον συναγείρεσθαι βασιλεῖ στράτευμα. καὶ συνιδεῖν δ' ἦν τῷ προσέχοντι τὸν νοῦν τῇ βασιλέως ἀρχῇ πλήθει μὲν χώρας καὶ ἀνθρώπων ἰσχυρὰ οὖσα, τοῖς δὲ μήκεσι τῶν ὁδῶν καὶ τῷ διεσπάσθαι τὰς δυνάμεις ἀσθενής, εἴ τις διὰ ταχέων τὸν πόλεμον ποιοῖτο. (I, 5, 9)


sabato 28 maggio 2016

Cremazione e fede

La chiesa cattolica continua a preferire l'inumazione alla cremazione come recita il canone 1176, comma 3:

la Chiesa raccomanda vivamente che si conservi la pia consuetudine di seppellire i corpi dei defunti; tuttavia non proibisce la cremazione, a meno che questa non sia stata scelta per ragioni contrarie alla dottrina cristiana.

Questo raccomandare è la continuazione di un atteggiamento politico, militaresco, la cremazione appartenendo a una visione non tradizionalista delle esequie e da guardare comunque con sospetto; la stessa ragione per cui nel 1886 la Chiesa aveva introdotto il divieto della cremazione opponendosi agli usi della massoneria. E' quindi la confessione di una debolezza di fede: l'attribuzione a Dio di una non capacità di arginare le rivendicazioni dell'ateismo. Una preoccupazione evidentemente ignota ai primi cattolici, in secoli di straordinaria fede, preoccupazione ignota a quanti osteggiavano il paganesimo e a chi era in guerra perpetua per la supremazia temporale. Vedi ad esempio gli esametri di coloritura omerica e ionica di Gregorio Nazianzeno, dove l'unico timore di cui si parla è quello del tribunale di Dio:

... Τυτθῆς φρενὸς ἥδε μεληδὼν,
Εἴ τε τάφῳ δώσει τις ἐμὸν δέμας, ἄπνοον ἄχθος,
Εἴ τε καὶ ἀκτερέϊστον ἕλωρ θήρεσσι γένοιτο,
Θήρεσιν, ἠὲ κύνεσσιν ἑλώριον, ἢ πετεηνοῖς,
Εἰ δ’ ἐθέλεις, πυρίκαυστον ἐς ἠέρα χείρεσι πάσσοις,
Ἠὲ κατὰ σκοπέλων μεγάλων ῥίψειας ἄτυμβον, 
Ἢ ποταμοῖσι πύθοιτο, καὶ ὑετίῃσι ῥοῇσιν
Οὐ γὰρ ἄιστος ἐγὼ μόνος ἔσσομαι, οὐδ’ ἀσύνακτος. 
Ὡς ὄφελον! πολλοῖς τόδε λώιον κτλ

E' preoccupazione di una mente angusta
se il mio corpo, fardello senza respiro, avrà una tomba,
se avrà o meno lacrime o ciberà qualche bestia,
che lo divorino cani o uccelli
o se bruciato sarà sparso nell'aria,
o se tra immense roccce lo getterai insepolto,
o se a vederlo saranno fiumi o torrenti di pioggia:
non sarò sconosciuto, non sarò solo, non sarò disperso.
Magari! ... è la speranza di molti ...
(Ad se ipsum per interrogationem et responsionem, 17-25, PG 37, 1348).



venerdì 6 maggio 2016

Lisia e la banalità del male

Una delle pagine più commoventi della letteratura greca l'ha scritta l' "avvocato" Lisia - se si può trovare commovente un qualsiasi testo di un qualsiasi autore che riconosca e approvavi la distinzione tra liberi e schiavi (in quest'ottica, l'ipocrita sensibilità di oggi dovrebbe condannare oltre alle varie forme di schiavismo tutte le letterature antiche senza eccezioni, e a farne le spese sarebbero in primo luogo le cattedre universitarie, che tali letterature esaltano e grazie alle quali prosperano, coi vari professori e ricercatori che andrebbero a zappare la terra - vedi quando ho detto in La "morte" di una schiava e il cinema degli antichi ).

E' il passo dell'orazione che Lisia pronunciò nel 404 nel processo che intenta personalmente contro Eratostene, uno dei trenta boia fascisti insediatisi quello stesso anno, per soli otto mesi, dopo la sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso. E' il punto dove dice della morte del fratello Polemarco, comandata dai Trenta, che s'erano già appropriati dei suoi beni durante l'attacco ai metechi, gli "stranieri" residenti a Atene, tra i quali c'erano appunto Lisia - che era riuscito a scappare - e il fratello. E' una pagina che per la mancanza assoluta di pathos, di ostentata emozione, ottiene l'effetto opposto, quello di lasciare il lettore moderno senza parole di fronte alla narrazione della banalità del male, secondo la definizione del male che ha dato genialmente Hannah Arendt.

Πολεμάρχῳ δὲ παρήγγειλαν οἱ τριάκοντα τοὐπ' ἐκείνων εἰθισμένον παράγγελμα, πίνειν κώνειον, πρὶν τὴν αἰτίαν εἰπεῖν δι' ἥντινα ἔμελλεν ἀποθανεῖσθαι· οὕτω πολλοῦ ἐδέησε κριθῆναι καὶ ἀπολογήσασθαι. καὶ ἐπειδὴ ἀπεφέρετο ἐκ τοῦ δεσμωτηρίου τεθνεώς, τριῶν ἡμῖν οἰκιῶν οὐσῶν <ἐξ> οὐδεμιᾶς εἴασαν ἐξενεχθῆναι, ἀλλὰ κλεισίον μισθωσάμενοι προὔθεντο αὐτόν. καὶ πολλῶν ὄντων ἱματίων αἰτοῦσιν οὐδὲν ἔδοσαν εἰς τὴν ταφήν, ἀλλὰ τῶν φίλων ὁ μὲν ἱμάτιον ὁ δὲ προσκεφάλαιον ὁ δὲ ὅ τι ἕκαστος ἔτυχεν ἔδωκεν εἰς τὴν ἐκείνου ταφήν.

A Polemarco i Trenta intimarono ciò che per questa gente era all'ordine del giorno: di bere la cicuta. E lo fecero ancor prima di rendergli nota l'accusa per la quale doveva morire, facendogli così mancare processo e difesa. E appena il corpo fu portato fuori dal carcere non vollero che il corteo funebre partisse da nessuna delle tre case che noi possedevamo, ma avendo affitttato loro stessi una stanzetta lo fecero esporre lì. E pur avendo noi indumenti con cui vestirlo non concessero nemmeno questo alle persone che lo chiedevano, ma furono gli amici a dare chi un mantello chi un cuscino ognuno ciò che aveva per seppellirlo.



















Vocali al servizio della religione

Un greco dei tempi di Erodoto o un latino dei tempi di Varrone, i quali pur non sprivvisti di vocali disponevano di un gran numero di parole terminanti in consonante, se ascoltassero parlare gli italiani non sentirebbero che un continuo a-o-a-i-e-o-u-a-e-i-o-a-i-o-u-i-e-a ... Gli italiani, senza vocali, sarebbero persi, non saprebbero a che santo votarsi se è vero che riempiendosi la bocca di a-e-i-o-u continuano semplicemente un percorso di lamenti: un'attitudine in certo senso religiosa - cattolica, la nostra - nemica di tutto ciò che è civico, se per civico si intende il contrario di tutto ciò che è istituzionalmente religioso e violentemente intollerante. E continuano, gli italiani e i cattolici, una tradizione anche più antica della loro, e sicuramente meno feroce. E' con le vocali, in fondo, che i sacerdoti egiziani celebravano gli dei. Vedi quanto dice Demetrio Falereo nel De elocutione

 Ἐν Αἰγύπτῳ δὲ καὶ τοὺς θεοὺς ὑμνοῦσι διὰ τῶν ἑπτὰ φωνηέντων οἱ ἱερεῖς, ἐφεξῆς ἠχοῦντες αὐτά, καὶ ἀντὶ αὐλοῦ καὶ ἀντὶ κιθάρας τῶν γραμμάτων τούτων ὁ ἦχος ἀκούεταιì. (71, 1-5)

In Egitto i sacerdeti inneggiano agli dei per mezzo delle sette vocali, emettendole di seguito, così che invece del flauto e della cetra si sente il suono di queste lettere.

Ma le testimonianze sono innumerevoli, anche se stranamente si accumulano in maniera ossessiva proprio nei primi secoli dell'era cristiana, quando il cattolicesimo si avviava a diventare religione omicida (i settemila non catolici massacrati a Tessalonica da Teodosio, le distruzioni dei templi di Efeso e di Marnas, i massacri del vescovo Teofilo a Alessandria eccetera). Si potrebbero citare, "a cavaliere" o "a fante" di una tradizione ancora pagano-cattolica, Servio, Porfirio, Eusebio, Giamblico. Per esempio negli scoli vaticani dei commenti alla Techne grammatike di Dionisio Trace si trova la seguente chicca (si tratta sicuramente di materiale di Porfirio):

Ταῦτα γὰρ τὰ φωνήεντα τοῖς πλάνησιν ἀνάκεινται· καὶ τὸ μὲν <α> φασὶ τῇ Σελήνῃ ἀνακεῖσθαι, τὸ δὲ <ε> τῷ Ἑρμῇ, τὸ δὲ <η> τῇ Ἀφροδίτῃ, τὸ δὲ <ι> τῷ Ἡλίῳ, τὸ δὲ <ο> τῷ Ἄρει, τὸ δὲ <υ> τῷ Διί, τὸ δὲ <ω> τῷ Κρόνῳ. (p.198, 4 ed. Hilgard)

Queste vocali sono dedicate ai pianeti [divinità]: la A alla Luna, la E a Mercurio, la ETA a Venere, la I al Sole, la O a Marte, la Y a Giove, OMEGA a Saturno.

E in Apuleio, nell'undicesimo delle Metamorfosi, Lucio, che non ha ancora ripreso le sembianze umane, in forma quindi di asino, dopo essersi svegliato da un incubo si lava immergendo la testa (e la criniera) ben sette volte nel mare:

numerum praecipue religioni aptissimum divinus ille Pythagoras prodidit

un numero tramandato dal divino Pitagora come adattissimo alla religione,

non solo in accordo col numero delle vocali dei latini e dei greci, appartenendo il testo ancora a un robusto paganesimo, ma aprendo la strada anche al futuro sette cattolico romano (sette come le peccata), e al Settebello (gioco di carte e treno) e al Tresette - come dimenticare che l'asino d'oro di Apuleio, che pur emettendo vocali raglia, è debitore, nel titolo, alla Citta di Dio di sant'Agostino, il quale ci avrà sicuramente visto una storia di conversione?

Ma per tornare all'Italiano, alla lingua, e alle sue radici nella religiosità antica, il fatto che sia il paradiso delle vocali non significa che altre nazioni meno provviste non si siano date ugualmente da fare, dal momento che, a sentire sempre alcuni autori antichi, la divinità non la si venera unicamente con le vocali ma anche attraverso schiocchi, fischi, sibili e altri suoni inarticolati di ogni genere - si sa per esempio che nelle parlate zulu predominano i click, i battiti di lingua, il tedesco soffia e sibila e abbaia, gli inglesi hanno ugualmente un gran numero di aspirate, gli spagnoli seguono i latini (non tutto è vocale) e c'è molto di gutturale o semitico, i francesi tendono a smorzare le vocali in semivocali, l'arabo e l'ebraico raschiano come e più degli spagnoli - giapponese e cinese, in quanto a vocali finali si sposano con l'italiano ecc... E si potrebbe, in questo gran calderone dei suoni al servizio della religione di ognuno, citare Nicomaco di Gerasa, il matematico, :

διὸ δὴ ὅταν μάλιστα οἱ θεουργοὶ τὸ τοιοῦτον σεβάζωνται, σιγμοῖς τε καὶ ποππυσμοῖς καὶ ἀνάρθροις καὶ ἀσυμφώνοις ἤχοις συμβολικῶς ἐπικαλοῦνται. (Excerpta, 6, 12-15).

perciò i teurgi ogni volta che veneravano, invocavano simbolicamente per mezzo di sibili e schiocchi e suoni inarticolati e discordanti.

Ma per lo stesso discorso varrebbe ugualmente bene un testo magico conservato in un papiro del terzo secolo dell'era cristiana, il papiro W di Leida, che contiene estratti dai libri apocrifi di Mosè. Si parla di procedure e figure da utilizzare durante alcuni riti

αὐτὸς γὰρ ὁ ἱερακοπρόσωπος κορκόδειλος εἰς τὰς δʹ τροπὰς τὸν θεὸν ἀσπάζεται τῷ ποππυσμῷ. (p. W, p. 2, 40-41 - p. 85, v. 2, ed. Leemans).

Lo stesso coccodrillo col volto di falco, [rivolto] secondo le quattro conversioni, saluta il dio [sole] con uno schiocco.

Ecc. ecc.




mercoledì 4 maggio 2016

Lectio facilior. Il culo profumato dei cani e gli splendori offuscati di Cicerone.

Se si volesse applicare con costanza il criterio della lectio difficilior alle opere di Cicerone (cosa che nessun editore di buon senso si sognerebbe di non fare) allora parecchi degli apparati delle recenti e meno recenti edizioni critiche dovrebbero essere rivisti. Un esempio tra i tanti si trova nelle Lettere a Attico (I.16) - sempre che l'epistolario non sia un falso (la questione non è mai stata nemmeno presa in considerazione dai vari editori negli ultimi cinque secoli. Si rischierebbe, oggi, di veder mandare al macero tonnellate di libri e articoli di storia, oltre che di filologia, anche se in fondo non si eliminerebbe la sostanza: avremmo cioè sempre a che fare con un signor falsario, un antico falsario con le palle, non ignaro di niente).

 E' la lettera dell'inizio luglio 61, nella quale - la questione era già stata affrontata in altre due lettere dell'inizio dell'anno (25 gennaio e 13 febbraio - I.13 e 14) - viene raccontata la penosa costituzione della giuria chiamata a giudicare Publio Clodio nel processo per sacrilegio, un processo nel quale Cicerone è chiamato come testimone. Testimonianza, d'altronde, che gli è poca gradita:

neque dixi quicquam pro testimonio nisi quod erat ita "notum" atque testatum ut non possem praeterire.

né ho raccontato nulla che non fosse così "conosciuto" e risaputo da poterlo trascurare.

Tutti gli editori moderni (e anche antichi) accolgono notum (conosciuto), conservato da alcuni codici della famiglia sigma contro la totale concordanza dei codici della famiglia delta, che hanno novum, cioè nuovo, inaudito, mai sentito prima e quindi anche recente, accaduto da poco, fresco (per novum nel senso di recente gli esempi non sono predominanti ma si trovano comunque in Livio, Tacito eccetera).

La difficoltà per l'editore, qui, è nel decidere tra il banale (notum) e l'icastico (novum), per quanto, a seconda che si opti l'uno o per l'altro, il senso non ne viene stravolto. Novum è inoltre appunto lectio difficilior.

Il problema sollevato da Cicerone è ovvio: è quello di qualsiasi processo fondato sull'escussione di un teste in mancanza di documenti - come è nel processo a Clodio, un processo per sacrilegio (crimen incesti), che tocca per di più la sfera non pubblica, non ufficialmente certificabile, della sessualità (se cioè Clodio sia entrato o meno vestito da donna in casa di Cesare per incontrarsi con Pompea durante la celebrazione dei riti della Bona Dea): un processo nel quale Clodio offre un alibi (si trovava a Terni, quel giorno, non a Roma), di fronte a un testimone, Cicerone, che aveva già sbandierato ai sette venti, e a poche ore dal fattaccio, che Clodio quel giorno era invece andato a trovarlo nella sua casa sul Palatino. Era perciò cosa ormai risaputa (testatum) e era un fatto anche novum - recente, ma anche singolare: colpiva per una sua certa "novità" (assurdità): quella discrepanza tra le parole di un ex console e le affermazioni di Clodio, e quindi restava impresso. E' evidente, quindi, che il problema posto agli editori di questo passo delle Lettere riguarda l'attendbilità di una testimonianza man mano che ci si allontani dagli eventi relati.

Vedi su questo, ad esempio, Demostene nel De corona, dove parla di accuse che si riferiscono a fatti non recenti:

νῦν δ' ἐκστὰς τῆς ὀρθῆς καὶ δικαίας ὁδοῦ καὶ φυγὼν τοὺς παρ' αὐτὰ τὰ πράγματ' ἐλέγχους, τοσούτοις ὕστερον χρόνοις αἰτίας καὶ σκώμματα καὶ λοιδορίας συμφορήσας ὑποκρίνεται (15)

ora invece, tenendosi fuori della retta via e avendo evitato le prove vicine ai fatti, costui recita dopo tanti anni un'accozzaglia di imputazioni e beffe e offese

o anche più specificamente:

καὶ μὴν ὅταν ᾖ νέα καὶ γνώριμα πᾶσι τὰ πράγματα, ἐάν τε καλῶς ἔχῃ, χάριτος τυγχάνει, ἐάν θ' ὡς ἑτέρως, τιμωρίας. (85)

e ovviamente, quando i fatti siano recenti e conosciuti a tutti, nel momento in cui vanno bene incontrano il favore, se vanno diversamente vengono puniti.

Insomma per quanto in Demostene siano ricordati entrambi gli aspetti di una testimonianza che abbia il sostegno della memoria (recenti e conosciuti), e per quanto il "conosciuti" di cui parla Demostene (γνώριμα) non sia altro che il notum accolto dagli editori delle Lettere, difficilmente Cicerone, che sicuramente conosceva il De corona parola per parola, se avesse dovuto scegliere, avrebbe scelto il secondo a scapito del primo (quel νέα cosi appetibile che gli dava la possibilità di richiamarlo quanto meno a se stesso  - e a Attico), evitato un uso pregno di novum al solo scopo di produrre un appiattimento del testo: notum atque testatum - testatum è d'altronde lì a indicare che ciò che ha raccontato in qualità di testimone era già stato attestato, cioè provato, riconosciuto come vero, e quindi conosciuto, noto. Vedi l'uso di testatum in questo stesso senso in un'altra lettera a Attico:
  
Epistulam meam quod pervulgatam scribis esse non fero moleste, quin etiam ipse multis dedi describendam; ea enim et acciderunt iam et impendent ut testatum esse velim de pace quid senserim, (VIII, 9).

Varrebbe la pena di ricordare il peso avuto da umanisti del calibro di Manuzio nel determinare alcuni erronei procedimenti della critica testuale a partire già dai primi testi a stampa: la differenza che Manuzio poneva tra novum e recens: ciò che caratterizza il novum è l'assoluta novità, ciò che non ha precedenti. Fatto non sempre vero, si veda ad esempio proprio in Cicerone, nelle Tuscolane:

cur tantum interest inter novum et veterem exercitum, quantum experti sumus?

dove novum  non indica altro che la qualità di un esercito: un esercito fatto di giovani in opposizione a uomini già provati, veterani. Il ripetersi di un fatto, la possibilità che possa ripresentarsi in ogni tempo un esercito di giovani, esclude il carattere di assoluta novità, di inaudito, e il senso è invece prossimo a quello che si ha per esempio in agricoltura, in culinaria, vedi anche l'italiano fresco (pesce fresco, appena pescato) - vinum novum (Varrone), novuum et venire qui videt culum olfacit (Fedro - i cani che annusano il culo a ogni nuovo cane che arriva, sperando che sia uno dei loro ambasciatori inviati a Giove, ai quali avevano, in segno di ripetto per la divinità, improfumato il culo).

Lo stesso discorso andrebbe fatto e ripetuto, nonostante la concordanza dei manoscritti (che però risalgono tutti a uno stesso codice), per un passo delle Verrine:

Postremo ego causam sic agam, iudices, eius modi res, "ita notas, ita testatas", ita magnas, ita manifestas proferam, ut nemo a vobis ut istum absolvatis per gratiam conetur contendere (actio 1, 48)

dove  l'amplificazione costruita su due coppie di termini paralleli richiede la sostituzione di notas con novas. Non così conosciute, così risapute ma così singolari e così risapute.

La lectio difficilior (novas) è conservata in un'edizione delle opere di Cicerone del 1776, a cura e con una sua traduzione in castigliano, di Manuel Antonio Merino, che si firmava Andrés Merino de Jesucristo, erudito scolopio e conoscitore di lingue orientali. Il quale tuttavia non dice, nella breve introduzione, dove abbia preso il testo latino.