mercoledì 4 maggio 2016

Lectio facilior. Il culo profumato dei cani e gli splendori offuscati di Cicerone.

Se si volesse applicare con costanza il criterio della lectio difficilior alle opere di Cicerone (cosa che nessun editore di buon senso si sognerebbe di non fare) allora parecchi degli apparati delle recenti e meno recenti edizioni critiche dovrebbero essere rivisti. Un esempio tra i tanti si trova nelle Lettere a Attico (I.16) - sempre che l'epistolario non sia un falso (la questione non è mai stata nemmeno presa in considerazione dai vari editori negli ultimi cinque secoli. Si rischierebbe, oggi, di veder mandare al macero tonnellate di libri e articoli di storia, oltre che di filologia, anche se in fondo non si eliminerebbe la sostanza: avremmo cioè sempre a che fare con un signor falsario, un antico falsario con le palle, non ignaro di niente).

 E' la lettera dell'inizio luglio 61, nella quale - la questione era già stata affrontata in altre due lettere dell'inizio dell'anno (25 gennaio e 13 febbraio - I.13 e 14) - viene raccontata la penosa costituzione della giuria chiamata a giudicare Publio Clodio nel processo per sacrilegio, un processo nel quale Cicerone è chiamato come testimone. Testimonianza, d'altronde, che gli è poca gradita:

neque dixi quicquam pro testimonio nisi quod erat ita "notum" atque testatum ut non possem praeterire.

né ho raccontato nulla che non fosse così "conosciuto" e risaputo da poterlo trascurare.

Tutti gli editori moderni (e anche antichi) accolgono notum (conosciuto), conservato da alcuni codici della famiglia sigma contro la totale concordanza dei codici della famiglia delta, che hanno novum, cioè nuovo, inaudito, mai sentito prima e quindi anche recente, accaduto da poco, fresco (per novum nel senso di recente gli esempi non sono predominanti ma si trovano comunque in Livio, Tacito eccetera).

La difficoltà per l'editore, qui, è nel decidere tra il banale (notum) e l'icastico (novum), per quanto, a seconda che si opti l'uno o per l'altro, il senso non ne viene stravolto. Novum è inoltre appunto lectio difficilior.

Il problema sollevato da Cicerone è ovvio: è quello di qualsiasi processo fondato sull'escussione di un teste in mancanza di documenti - come è nel processo a Clodio, un processo per sacrilegio (crimen incesti), che tocca per di più la sfera non pubblica, non ufficialmente certificabile, della sessualità (se cioè Clodio sia entrato o meno vestito da donna in casa di Cesare per incontrarsi con Pompea durante la celebrazione dei riti della Bona Dea): un processo nel quale Clodio offre un alibi (si trovava a Terni, quel giorno, non a Roma), di fronte a un testimone, Cicerone, che aveva già sbandierato ai sette venti, e a poche ore dal fattaccio, che Clodio quel giorno era invece andato a trovarlo nella sua casa sul Palatino. Era perciò cosa ormai risaputa (testatum) e era un fatto anche novum - recente, ma anche singolare: colpiva per una sua certa "novità" (assurdità): quella discrepanza tra le parole di un ex console e le affermazioni di Clodio, e quindi restava impresso. E' evidente, quindi, che il problema posto agli editori di questo passo delle Lettere riguarda l'attendbilità di una testimonianza man mano che ci si allontani dagli eventi relati.

Vedi su questo, ad esempio, Demostene nel De corona, dove parla di accuse che si riferiscono a fatti non recenti:

νῦν δ' ἐκστὰς τῆς ὀρθῆς καὶ δικαίας ὁδοῦ καὶ φυγὼν τοὺς παρ' αὐτὰ τὰ πράγματ' ἐλέγχους, τοσούτοις ὕστερον χρόνοις αἰτίας καὶ σκώμματα καὶ λοιδορίας συμφορήσας ὑποκρίνεται (15)

ora invece, tenendosi fuori della retta via e avendo evitato le prove vicine ai fatti, costui recita dopo tanti anni un'accozzaglia di imputazioni e beffe e offese

o anche più specificamente:

καὶ μὴν ὅταν ᾖ νέα καὶ γνώριμα πᾶσι τὰ πράγματα, ἐάν τε καλῶς ἔχῃ, χάριτος τυγχάνει, ἐάν θ' ὡς ἑτέρως, τιμωρίας. (85)

e ovviamente, quando i fatti siano recenti e conosciuti a tutti, nel momento in cui vanno bene incontrano il favore, se vanno diversamente vengono puniti.

Insomma per quanto in Demostene siano ricordati entrambi gli aspetti di una testimonianza che abbia il sostegno della memoria (recenti e conosciuti), e per quanto il "conosciuti" di cui parla Demostene (γνώριμα) non sia altro che il notum accolto dagli editori delle Lettere, difficilmente Cicerone, che sicuramente conosceva il De corona parola per parola, se avesse dovuto scegliere, avrebbe scelto il secondo a scapito del primo (quel νέα cosi appetibile che gli dava la possibilità di richiamarlo quanto meno a se stesso  - e a Attico), evitato un uso pregno di novum al solo scopo di produrre un appiattimento del testo: notum atque testatum - testatum è d'altronde lì a indicare che ciò che ha raccontato in qualità di testimone era già stato attestato, cioè provato, riconosciuto come vero, e quindi conosciuto, noto. Vedi l'uso di testatum in questo stesso senso in un'altra lettera a Attico:
  
Epistulam meam quod pervulgatam scribis esse non fero moleste, quin etiam ipse multis dedi describendam; ea enim et acciderunt iam et impendent ut testatum esse velim de pace quid senserim, (VIII, 9).

Varrebbe la pena di ricordare il peso avuto da umanisti del calibro di Manuzio nel determinare alcuni erronei procedimenti della critica testuale a partire già dai primi testi a stampa: la differenza che Manuzio poneva tra novum e recens: ciò che caratterizza il novum è l'assoluta novità, ciò che non ha precedenti. Fatto non sempre vero, si veda ad esempio proprio in Cicerone, nelle Tuscolane:

cur tantum interest inter novum et veterem exercitum, quantum experti sumus?

dove novum  non indica altro che la qualità di un esercito: un esercito fatto di giovani in opposizione a uomini già provati, veterani. Il ripetersi di un fatto, la possibilità che possa ripresentarsi in ogni tempo un esercito di giovani, esclude il carattere di assoluta novità, di inaudito, e il senso è invece prossimo a quello che si ha per esempio in agricoltura, in culinaria, vedi anche l'italiano fresco (pesce fresco, appena pescato) - vinum novum (Varrone), novuum et venire qui videt culum olfacit (Fedro - i cani che annusano il culo a ogni nuovo cane che arriva, sperando che sia uno dei loro ambasciatori inviati a Giove, ai quali avevano, in segno di ripetto per la divinità, improfumato il culo).

Lo stesso discorso andrebbe fatto e ripetuto, nonostante la concordanza dei manoscritti (che però risalgono tutti a uno stesso codice), per un passo delle Verrine:

Postremo ego causam sic agam, iudices, eius modi res, "ita notas, ita testatas", ita magnas, ita manifestas proferam, ut nemo a vobis ut istum absolvatis per gratiam conetur contendere (actio 1, 48)

dove  l'amplificazione costruita su due coppie di termini paralleli richiede la sostituzione di notas con novas. Non così conosciute, così risapute ma così singolari e così risapute.

La lectio difficilior (novas) è conservata in un'edizione delle opere di Cicerone del 1776, a cura e con una sua traduzione in castigliano, di Manuel Antonio Merino, che si firmava Andrés Merino de Jesucristo, erudito scolopio e conoscitore di lingue orientali. Il quale tuttavia non dice, nella breve introduzione, dove abbia preso il testo latino.






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