על נהרות בבל שם ישבנו גם־בכינו בזכרנו את־ציון׃
Sui fiumi di Babilonia sedevamo e piangevamo al ricordo di Sion.
Così hanno fatto i "grandi" della Terra, come li chiamano i giornali provinciali italiani (Corriere e Repubblica - Huffington Post Italia, sottomarca del liberalismo pseudo libertario, non è nemmeno da prendere in considerazione, se non come possibilità di ottenere una credit card prepagata). Così hanno fatto invece i piccoli della terra, rappresentati giustamente da gnomi in tailleur e giacca e cravatta, sulle ceneri di Charlie Hebdo: hanno sicuramente intonato l'inizio del Cantico di Sion, del più famoso dei salmi delle lamentazioni.
Ci sarebbe da dire che il testo l'ebraico non ha "e", come ho tradotto, ma "anche" (גם - gam). E' in posizione estremamente ambigua - estremamente perché è agli estremi di due proposizioni correlate: un nesso, sembrerebbe, paratattico ("questo e questo": sedevamo e piangevamo). Ma potrebbe riferirsi a quanto precede: sedevamo anche, cioè: anche sui fiumi di Babilonia sedevamo (dopo esserci seduti altrove). Oppure a quanto segue: piangevamo anche (oltre a essere seduti, piangevamo), e potrebbe addirittura indicare enfasi, come in alcuni suoi usi nel Vecchio Testamento, a introdurre un climax, un crescendo, uno stracciarsi le vesti, uno strapparsi i capelli, un graffiarsi e rigarsi i volti: sui fiumi di Babilonia sedevamo, sì (proprio così): piangevamo eccetera"
Tutti sensi che si adattano benissimo alla congrega di pidocchi della terra che si sono riuniti a Parigi
(ad esempio: e piangevamo anche, mentre rispondevamo al cellualre; oppure piangevamo anche mentre peteggiavamo in silenzio; oppure: piangevamo anche mentre speravamo, noi amebe, di essere visti dal mondo eccetera; oppure nel primo caso: anche lì sedevamo, dopo esserci seduti a tutte le inutili tristi celebrazioni e messe di suffragio.
Grazie al cielo l'orazione di Pericle per i caduti della guerra archidamica è andata perduta: doveva essere di una noia mortale a giudicare dalla ricostruzione di Tucidide: roboantica celebrazione della sua testa a forma di ogiva (per quanto Pericle fosse un gigante in confronto a queste caccole).
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martedì 13 gennaio 2015
sabato 2 agosto 2014
Nota su Demostene guerriero
Quasi all’inizio dell’orazione sulla falsa ambasceria Eschine
mena contro Demostene un ben fiacco fendente:
non è la stessa cosa infatti per me perdere la vostra benevolenza o per costui la causa non vincere:
Ἐφοβήθην μὲν γάρ, καὶ ἔτι καὶ νῦν τεθορύβημαι μή τινες ὑμῶν ἀγνοήσωσί
με ψυχαγωγηθέντες τοῖς ἐπιβεβουλευμένοις καὶ κακοήθεσι τούτοις ἀντιθέτοις·
che dovrebbe suonare - a non voler tradurre
troppo letteralmente:
… Avevo
allora paura - e anche adesso non sono affatto tranquillo - che alcuni
di voi finissero per riversare su di me un giudizio sfavorevole
solo perché affascinati da quelle sue malvagie, perverse a n t i t e s i.
Nessuno tra gli ateniesi della metà del quarto secolo –
attenti ormai alle minime sfumature stilistiche - avrebbe trovato la battuta di Eschine felice, a meno che non fosse un più generale rimando alla bravura tecnica dell'avversario. La ragione è che per quanti sforzi si
facciano, l'uso dell'antitesi in Demostene è rarissimo, e anche quando se ne trova una, in un modo o nell’altro, provocatoriamente, diabolicamente, Demostene
ne rompe il perfetto ed effeminato meccanismo, e lo fa inaspettatamente, e data la
libertà di cui gode la sintassi greca, imprevedibilmente riguardo ai risultati. Che è quanto succede all'inizio dell’orazione
sulla corona:, dove un po' come in un gioco tra bambini, Demostene, anche lui bambino, entra improvvisamente e distrugge tutto):
οὐ γάρ ἐστιν ἴσον νῦν ἐμοὶ τῆς παρ᾽ ὑμῶν εὐνοίας διαμαρτεῖν καὶ τούτῳ μὴ ἑλεῖν τὴν γραφήν:
non è la stessa cosa infatti per me perdere la vostra benevolenza o per costui la causa non vincere:
e ci si sarebbe aspettati “non vincere la causa”, un più pacifico, almeno momentaneo, adeguarsi: un entrare quasi in sordina, un segno di genuina modestia, visto che dopotutto il vero imputato non è Ctesifonte ma lui stesso.
D’altronde il frammento di Timocle, che fa definire Demostene da uno dei suoi
personaggi non solo una sorta di Briareo dalle cinquanta teste e cento braccia, che ingoiava di tutto, perfino catapulte e lance, ma anche uno
che:
odia la letteratura e non ha mai pronunciato un’antitesi, e pare Marte in guerra:
μισῶν λόγους ἄνθρωπος, οὐδὲ πώποτε
ἀντίθετον εἰπὼν οὐδέν, ἀλλ' Ἄρη βλέπων (fr.12).
non lascia dubbi. Difficile pensare, senza rendere incomprensibile tutto il resto, che ci sia ironia, che si volesse intendere che Demeostene non faceva altro che servirsi di antitesi (che a noi sarebbero però sconosciute), quasi il personaggio di Timocle strizzasse l'occhio al pubblico; in effetti Plutarco (Dem., 9), quando riferisce dell'abituidine di Demostene di parlare per antitesi, cita soltanto i versi di Antifane, anche qui un dialogo:
Riguardo al mio padrone, tutto ciò che veniva dal padre
come p r e s e, r i p r e s e ! - Beh, sarebbe piaciuta
a Demostene questa frase!
che più che rimandare a un supposto abuso di antitesi non è che un preciso riferimento politico (Plutarco stesso ci va cauto), all'orazione in difesa di Alonneso, nella quale Demostene invitava gli ateniesi non tanto prendersi ma a riprendersi l'isola.
non lascia dubbi. Difficile pensare, senza rendere incomprensibile tutto il resto, che ci sia ironia, che si volesse intendere che Demeostene non faceva altro che servirsi di antitesi (che a noi sarebbero però sconosciute), quasi il personaggio di Timocle strizzasse l'occhio al pubblico; in effetti Plutarco (Dem., 9), quando riferisce dell'abituidine di Demostene di parlare per antitesi, cita soltanto i versi di Antifane, anche qui un dialogo:
Riguardo al mio padrone, tutto ciò che veniva dal padre
come p r e s e, r i p r e s e ! - Beh, sarebbe piaciuta
a Demostene questa frase!
(ὁ δεσπότης δὲ πάντα τὰ παρὰ τοῦ πατρὸς
ἀπέλαβεν ὥσπερ ἔλαβεν. - ἠγάπησεν ἂν
τὸ ῥῆμα τοῦτο παραλαβὼν Δημοσθένης. [fr. 169]) che più che rimandare a un supposto abuso di antitesi non è che un preciso riferimento politico (Plutarco stesso ci va cauto), all'orazione in difesa di Alonneso, nella quale Demostene invitava gli ateniesi non tanto prendersi ma a riprendersi l'isola.
Vedi più diffusamente, sulla questione antitesi
nella prosa greca di quegli anni, Denniston, altro dei grandi grecisti
che dovette subire le angherie e vigliaccate del mondo accademico. Il
quale Denniston però pone la questione del giudizio di Eschine su un piano
relativistico, cioè di punti di vista, piuttosto che sul fatto che si
tratti di un'argomentazione debole.
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giovedì 2 maggio 2013
Amor ch'a nullo amato
Mi viene da pensare che (conoscendo come vanno le cose nel mondo) è sempre vero che in amor vince chi fugge, non c'è possibilità di errore. Che si tratti cioè di una di quelle leggi
della psicologia umana che restano oltretutto inalterate nel tempo. Quello che invece non sappiamo è se, parlando dell'amore di Dio, nel senso di amore che si ha per Dio, valga la stessa
legge. Chiunque provi questo tipo di amore dovrà aspettare, sperare: e speranza significa in latino, come anche in greco, attesa; di sicuro al termine di una lunga attesa sarebbe
non facile, non bello, dover prendere atto che chi è fuggito dal divino, così come sulla terra, ne abbia al contrario conquistato l'amore e che questa legge non solo è universale ma ci si conforma anche il creatore dell'universo. E si potrebbero far rientrare, nei discorsi sull’amore, anche le tante riflessioni, odierne o passate, sull'amor di patria: il nemo propheta in patria - questione non da poco - è un esempio di come
la stessa legge dell'amore dei sensi valga anche nell’etica. Andocide, famoso personaggio dei
tempi di Pericle, di qualche anno più giovane di Alcibiade, venne colpito da una serie di disgrazie civili, una dietro l’altra, con vari esili tutti documentati, e ogni volta cercò di rientrare ad Atene, provò a riconquistarsi sempre senza troppo successo l’amore della sua città.
Laocoonte, copia in porcellana - foto LuciusCommons
Devo ammettere non ho mai avuto molta simpatia per questo personaggio - e forse più che per l’uomo, per ciò che ancora oggi il suo più conosciuto gesto può moralmente significare, se è ormai appurato che per salvarsi da una condanna a morte denunciò dei "presunti" colpevoli nel famoso scandalo delle erme. Dice Andocide, nella celebre orazione detta Sopra il suo ritorno, parlando agli ateniesi e tentando di dimostrare che il suo amor di patria era sincero: “mi accorsi a un certo punto che la cosa migliore per me era di restarmene lontano e comportarmi in maniera tale da farmi vedere il meno possibile”. Non gli andò bene. Gli ateniesi fiutarono la malafede, un falso nascondersi, un falso fuggire. Il fatto curioso, nel caso di Andocide, è che se pure lo vediamo nutrire speranze, “aspettative", non doveva mancargli un certo ironico senso del reale. Quel suo farsi vedere il meno possibile si sarebbe rivelato il suo più vero destino; e dopo il definitivo esilio mi pare nel 392 se ne perdono definitivamente le tracce, non si saprà più niente di lui. Così, questo essere fuggito per sempre gli è giustamente valso in seguito, in epoca alessandrina, l’amore e la stima della sua nazione se fu inserito nella lista dei dieci più importanti oratori attici, anche se venne messo all’ultimo posto.
Laocoonte, copia in porcellana - foto LuciusCommons
Devo ammettere non ho mai avuto molta simpatia per questo personaggio - e forse più che per l’uomo, per ciò che ancora oggi il suo più conosciuto gesto può moralmente significare, se è ormai appurato che per salvarsi da una condanna a morte denunciò dei "presunti" colpevoli nel famoso scandalo delle erme. Dice Andocide, nella celebre orazione detta Sopra il suo ritorno, parlando agli ateniesi e tentando di dimostrare che il suo amor di patria era sincero: “mi accorsi a un certo punto che la cosa migliore per me era di restarmene lontano e comportarmi in maniera tale da farmi vedere il meno possibile”. Non gli andò bene. Gli ateniesi fiutarono la malafede, un falso nascondersi, un falso fuggire. Il fatto curioso, nel caso di Andocide, è che se pure lo vediamo nutrire speranze, “aspettative", non doveva mancargli un certo ironico senso del reale. Quel suo farsi vedere il meno possibile si sarebbe rivelato il suo più vero destino; e dopo il definitivo esilio mi pare nel 392 se ne perdono definitivamente le tracce, non si saprà più niente di lui. Così, questo essere fuggito per sempre gli è giustamente valso in seguito, in epoca alessandrina, l’amore e la stima della sua nazione se fu inserito nella lista dei dieci più importanti oratori attici, anche se venne messo all’ultimo posto.
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