sabato 2 agosto 2014

Nota su Demostene guerriero

Quasi all’inizio dell’orazione sulla falsa ambasceria Eschine mena contro Demostene un ben fiacco fendente:

Ἐφοβήθην μὲν γάρ, καὶ ἔτι καὶ νῦν τεθορύβημαι μή τινες ὑμῶν ἀγνοήσωσί με ψυχαγωγηθέντες τοῖς ἐπιβεβουλευμένοις καὶ κακοήθεσι τούτοις ἀντιθέτοις·

che dovrebbe suonare - a non voler tradurre troppo letteralmente:

Avevo allora paura - e anche adesso non sono affatto tranquillo - che alcuni di voi finissero per riversare su di me un giudizio sfavorevole solo perché affascinati da quelle sue malvagie, perverse  a n t i t e s i.

Nessuno tra gli ateniesi della metà del quarto secolo – attenti ormai alle minime sfumature stilistiche  - avrebbe trovato la battuta di Eschine felice, a meno che non fosse un più generale rimando alla bravura tecnica dell'avversario. La ragione è che per quanti sforzi si facciano, l'uso dell'antitesi in Demostene è rarissimo, e anche quando se ne trova una, in un modo o nell’altro, provocatoriamente, diabolicamente, Demostene ne rompe il perfetto ed effeminato meccanismo, e lo fa inaspettatamente, e data la libertà di cui gode la sintassi greca, imprevedibilmente riguardo ai risultati. Che è quanto succede all'inizio dell’orazione sulla corona:, dove un po' come in un gioco tra bambini, Demostene, anche lui  bambino, entra improvvisamente e distrugge tutto):

οὐ γάρ ἐστιν ἴσον νῦν ἐμοὶ τῆς παρ᾽ ὑμῶν εὐνοίας διαμαρτεῖν καὶ τούτῳ μὴ ἑλεῖν τὴν γραφήν:

non è la stessa cosa infatti per me perdere la vostra benevolenza o per costui la causa non vincere:

e ci si sarebbe aspettati “non vincere la causa”, un più pacifico, almeno momentaneo, adeguarsi: un entrare quasi in sordina, un segno di genuina modestia, visto che dopotutto il vero imputato non è Ctesifonte ma lui stesso.

D’altronde il frammento di Timocle, che  fa definire Demostene da uno dei suoi personaggi non solo una sorta di Briareo dalle cinquanta teste e cento braccia, che ingoiava di tutto, perfino catapulte e lance, ma anche uno che:

odia la letteratura e non ha mai pronunciato un’antitesi, e pare Marte in guerra:

μισῶν λόγους ἄνθρωπος, οὐδὲ πώποτε

ἀντίθετον εἰπὼν οὐδέν, ἀλλ' Ἄρη βλέπων (fr.12).

non lascia dubbi. Difficile pensare, senza rendere incomprensibile tutto il resto, che ci sia ironia, che si volesse intendere che Demeostene non faceva altro che servirsi di antitesi (che a noi sarebbero però sconosciute), quasi il personaggio di Timocle strizzasse l'occhio al pubblico; in effetti Plutarco (Dem., 9), quando riferisce dell'abituidine di Demostene di parlare per antitesi, cita soltanto i versi di Antifane, anche qui un dialogo:

Riguardo al mio padrone, tutto ciò che veniva dal padre
come  p r e s e,  r i p r e s e ! - Beh, sarebbe piaciuta
a Demostene questa frase!

(ὁ δεσπότης δὲ πάντα τὰ παρὰ τοῦ πατρὸς
ἀπέλαβεν ὥσπερ ἔλαβεν. - ἠγάπησεν ἂν
τὸ ῥῆμα τοῦτο παραλαβὼν Δημοσθένης. [fr. 169])

che più che rimandare a un supposto abuso di antitesi non è che un preciso riferimento politico (Plutarco stesso ci va cauto), all'orazione in difesa di Alonneso, nella quale Demostene invitava gli ateniesi non tanto prendersi ma a riprendersi l'isola.

Vedi più diffusamente, sulla questione antitesi nella prosa greca di quegli anni, Denniston, altro dei grandi grecisti che dovette subire le angherie e vigliaccate del mondo accademico. Il quale Denniston però pone la questione del giudizio di Eschine su un piano relativistico, cioè di punti di vista, piuttosto che sul fatto che si tratti di un'argomentazione debole.





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