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martedì 21 giugno 2016

Quando Krishna aiuta la filologia. Due versi del Baghavadgita

La banalizzazione di una delle strofe più cariche di tensione del Baghavadgita - la decima del primo canto - è un tipico esempio degli errori che si producono in filologia quando una non necessariamente modesta capacità linguistica non è sorretta da sufficiente "acume" critico, quando cioè il desiderio di brillare sempre e comunque, di porsi a tutti i costi in mostra, fa scendere nel campo azzeccapastrobubbolesco della filologia un qualsiasi ultimo editore che voglia confrontarsi col già detto - e detto e ripetuto erroneamente.

Così non c'è nessuna ragione di ritenere corrotto il testo tradito di questo passo del Gita, o del suo parallelo nella tradizione separata del sesto parvan del Mahabharata (6.10.1-2):

अपर्याप्तं तद् अस्माकं बलं भीष्माभिरक्षितम् /
पर्याप्तं त्विदम् एतेषां बलं भीमाभिरक्षितम् //

Sono state proposte le più disparate interpretazioni, forzato il "genio" del sanscrito ("quello" tradotto con "questo" e viceversa), dato un significato artificioso a pariapta (limitato invece che sufficiente, all'altezza, uguale a), elaborate interpretazioni così fantasiose, così poco concrete che a volerle ammettere sarebbe permesso, in filologia, qualsiasi intervento, far dire tutto e il contrario a un autore. E basterebbe, a titolo di esempio, riportare l'incomprensibile traduzone di Winthrop Sargeant, che per il resto è sempre o quasi sempre puntuale:

sufficient is that force of ours guarded by Bhīma;
insufficient though is the force guarded by Bhima.


I primi mal di pancia iniziarono in realtà quando più di un antico commentatore indiano si accorse che le forze militari di Duryodhana (il personaggio che in questi due śloka parla) erano di gran lunga superiori a quelle degli avversari, dei figli di Pāṇḍu. Impossibile, quindi, secondo i più, che Duryodhana voglia intendere che le sue forze siano "non sufficienti", non all'altezza degli avversari; o che nel farlo non si accorga di compromettere il morale degli uomini. Il quale Duryodhana, per essere precisi, sta parlando non all'intera armata ma al loro maestro d'armi, al valoroso Drona, lo stesso che ha addestrato i guerrieri schierati sotto i loro occhi (ma se pure parlasse all'intero esercito non farebbe nessuna differenza).

Il passo, di una cristallinità disarmante, continuò a suscitare interesse nella critica moderna. Perfino uno studioso del calibro di van Buitenen cadde in questa ridicola trappola, in un vecchio articolo del Journal of American Oriental Society. Basandosi su un commento di Vedāntādeśika a Ramanuja e citando un manoscritto saradico e un commento di Bhaskara il Vedantino, arrivò a vedere nella tradizione di questo passo un'inversione dei nomi che compaiono nei due versi: in altri termini, al posto di Bhīma si dovrebbe leggere Bhīma e al posto di Bhīma Bhīma. Che non è altro, in sostanza, che il capovolgimento del criterio pirincipe della critica testuale, il criterio dell'autorevolezza della lectio difficilior (rendere al contrario tutto più semplice e accontentare una logica dei presupposti). C'è da dire che van Buitenen dedica solo le prime pagine alla questione, ammette che il passo è apparentemente adamantino, "seemingly transparent", e propone la sua versione, che in qualche modo, e indirettamente, riesce a far quadrare, si avvicina al senso più ovvio:

that army guarded by Bhima is not equal to us;
on the other hand, this army, guarded by Bhīma is equal to them;

per il resto si dedica a problemi più interessanti: ai rapporti codicologici tra le due differenti tradizioni - il testo separato del Baghavadgita, e lo stesso testo contenuto nel Mahabharata.  Perfino la critica contemporanea continua a battere sul seminato, sull'erba cattiva (tra gli antichi soltanto giustamente Sankara, il filosofo, non s'è sognato di commentare la giustezza di questi versi, ma forse, anzi sicuramente, in lui giocavano altre ragioni, il fatto che questa prima sezione del Gita non presenta interessi dottrinali).

Le confusioni e gli errori in filologia nascono sempre da un'interpretazione del testo avviata non sulla base di una nozione di uso, e di possibili usi linguistici che sfuggono alla norma, o non immediatamente "propri" di un  particolare autore, o sulla base di considerazioni di natura estetica, ma seguendo una logica normativa, di attese non pienamente soddisfatte - e non soddisfatte il più delle volte perché l'autore a tutto pensava meno che a soddisfare l'idiozia di un critico. Dove sarebbe d'altronde l'onnipresente ironia del Gita (vedi ad esempio la strofa 41 del primo canto, le donne corrotte, che coi loro figli illegittimi creano disordine nelle caste, un timore inevitabilemente ironico di Arjuna, dal momento che né lui né i suoi fratelli sono esattamente figli di Pāṇḍu; e ancora nelle strofe 20-23, l'immobilismo di Arjuna, che se da un lato chiede a  Krishna, il suo auriga, di piazzargli il carro in mezzo alle due armate, è poi incapace di agire e scegliere tra due forze opposte ecc.), dove finisce il capovolgimento artistico? e per quale motivoDuryodhana, che è senza dubbio un valente militare, e dispone di un numero superiore di soldati, avrebbe dovuto riaffermarlo, e vantarsene addirittura col suo maestro: dichiarare una simile banalità se non per attirarsi addosso un'accusa di superbia e vanagloria? E dove sarebbe l'attesa non del critico ma del lettore o dell'ascoltatore, se crede che i giochi siano già fatti visto che Duryodhana è superiore all'avversario? E in effetti lo dice: afferma che le sue forze sono superiori ma per capovolgerne immediatamente l'assunto: che non si sente cioè affatto superiore. In cosa dovrebbe consisterebbe l'eroismo se si combattesse contro un avversario ritenuto inesistente?

Sarebbe bastata questa semplice considerazione di natura estetica (pur lasciando fuori ogni considerazione sintattica) a tagliare la testa al toro. Una confusione che nasce da una visione banalizzante delle cose. E la questione era semmai come rendere il termine chiave पर्याप्त्म् (paryāptam), e la sua negazione, आपर्याप्त्म् (aparyāptam), posta in opposizione all'inizio del verso precedente. E inoltre, in che funzione intendere बलम् balam (forza - all'accusativo, non al nominativo, come si è sempre erroneamente inteso), il quale (cosa a cui nessuno ha mai pensato) è un semplice accusativo di relazione - o dipendente da un participio sottinteso (di noi che abbiamo una forza sorretta da Bhishma) - vedi su questi usi dell'accusativo ad esempio il secondo canto, anche qui un accusativo neutro, all'interno, tra l'altro, di un tipico composto bahuvrīhi:

अश्रुपूर्णाकुलेक्षणम् - laśrupūrṇākulekṣaṇam (2,1)

l'occhio abbattuto e pieno di lacrime

o nel terzo libro, le parole di Krishna a Arjuna, quando lo invita a sottostare all'inevitabilità dell'azione:

नियतं कुरु कर्म त्वम् - nyata kuru karma tvam (3,8)

sottomesso, agisci!

dove sottomesso (नियतम्) è ovviamente, anche questo, un accusativo.


Lo stesso vale - riandando al primo canto - per il secondo verso della strofa (di loro che hanno una forza sorretta da Bhima).  E così  तद् (tad - quella), e  इदम् (idam - questa) staranno bene al loro posto e continueranno a significare quello che hanno sempre significato e non l'opposto.

Insomma i due śloka vanno intesi:

Non è uguale, quella, a noi: una forza (la nostra) guidata da Bhishma
eppure è uguale, questa, alla loro: una forza (la loro) sorretta da Bhima

E il senso è che Bhima non solo non è inferiore a Bhishma (come afferma Edgerton - "unskilled") ma anzi, per il fatto che sia lui a guidare le forze dei figli di Pāṇḍu, pone questi, seppure in numero inferiore, all'altezza degli avversari.

martedì 21 ottobre 2014

i notebook inesistenti di Plutarco e Montaigne

Plutarco è forse l’autore dell’antichità che più di altri ha conosciuto una durevole, invidiabile e per certi versi inattaccabile fortuna (il Plutarco morale più che quello delle Vite), e in misura così eccelsa che perfino gli dei avrebbero di che lamentarsi; delle circa 250 opere che gli si attribuiscono ne restano un terzo, un numero ugualmente enorme per un autore antico. Non desta quindi meraviglia il fatto che, soprattutto a partire da una critica per così dire più “positivista”, gli siano state lanciate contro accuse (che hanno e avrebbero avuto in realtà poco senso per l’estetica antica, a meno che non si fosse trattato di ulteriormente screditare scrittorucoli dell’ultima ora) di blando riciclaggio e riutilizzo di materiali non suoi – vedi la Quellenforschung all’inizio del Novecento, secondo la quale mancava a Plutarco capacità creativa nel trattamento delle fonti; o i tentativi di smontarne l’opera per mezzo di quello strumento critico detto dei clusters of parallel passages, elaborato dalla Scuola di Lovanio negli anni Novanta sempre del secolo scorso (soprattutto da Luc van der Stockt e van Meirvenne, ripreso ancora da Verdegem), in altri termini di moduli che si ripeterebbero da un’opera all’altra e risalenti a un ipotetico “notebook” nel quale confluiva materiale che sarebbe potuto risultare utile per le opere a venire – strumento critico d’altronde di gran successo se viene tuttora testato su questa o quest’altra opera anche al di fuori della Scuola di Lovanio – e vedi anche un più recente lavoro sulla tecnica compositiva di Plutarco – con varie forzature - di Sophia Xenophontos (American Journal of Pilology, 133, 1 2012, pp. 61-91). E tuttavia, pur prendendo atto di alcune bellezze del gioco, alla fine si resta sempre incerti di fronte a tante certezze fondate sul nulla e bisognerà forse allora chiedersi se al di là degli entusiasmi dei dipartimenti universitari per l’uno o l’altro strumento interpretativo non abbia senso indagare in primo luogo le ragioni "vere" della incontrastata quasi bi-millenaria fortuna di questo autore, che in fondo scrisse semplicemente di morale, ossia di costumi, in uno stile tra i più elaborati di quell'epoca. Che è lo stesso che faceva un autore che citava ampiamente Plutarco - Montaigne, ugualmente accusato di saccheggiare a destra e a sinistra. E si troverebbe che in realtà questi due autori lessero, raccolsero materiale, e soprattutto provarono piacere (che è sempre un fatto stilistico e potentemente personale e già meno oggettivo) nel comporre e a volte ricomporre (cioè mettere insieme quasi musivamente senza che questo debba comportare una blanda ricopiatura o plagio o mancata riflessione) le tante tessere etiche o morali strappate alle loro letture-ricerche e ai loro ricordi – i due condividono non a caso anche un gusto della descrizione di ineliminabili tensioni autobiografiche:

ἀνελεξάμην περὶ εὐθυμίας ἐκ τῶν ὑπομνημάτων ὧν ἐμαυθῷ πεποιημένος ἐτύγχανον (Plu., De tranquillitate animi, 464f)

Ho scelto sulla tranquillità dell’animo dai ricordi di ciò che facevo con me stesso

e così anche Montaigne, già nell'avvertenza al lettore, è alquanto esplicito: i suoi saggi non sono altro che uno strumento offerto alla comodità di parenti e amici, che vi ritroveranno un giorno alcuni aspetti dei suoi stati e umori:

... à ce que m'ayant perdu (ce qu'ils ont à faire bien tost) il y puissent retrouver aucun traits de mes conditions et humeurs ...

Ovviamente non c’è nulla nel famoso passo del De tranquillitate animi che dica che questi ὑπομνήματα fossero note scritte, che fosse esistito una sorta di diario o serie di appunti – anche se sicuramente sarà ipotizzabile in una qualche misura; ma non al punto da farne, senza prove, una presenza così ossessivamente vera nei dipartimenti universitari, un oggetto perduto per sempre e quasi di culto (“but unfortunately they are lost”, Xenophontos; la quale Xenophontos poi è la prima a riconoscere che forse, come ritiene di aver spiegato, non è tanto questione di un “notebook” inteso come contenitore di patchworks, di materiale grezzo o semplici collezioni di elementi, quanto piuttosto di un insieme di bozze comportanti già una sorta di composizione e rielaborazione di dati tratti dalle sue fonti). 

giovedì 25 settembre 2014

il voyeurismo e la bava del contemporaneo

"così come il contesto richiede in rapporto al soggetto" (ἀλλ' ὡς ὁ ἀγὼν ἀπαιτεῖ πρὸς τὴν ὑπόθεσιν, Plut., Dem, 22, 6).

Il contesto è quello del teatro antico, e comunque una stessa estetica ancora ai tempi di Plutarco, quando il dramma presentato da un autore è immediatamente giudicato dal pubblico in rapporto ad altri drammi in concorso (ἀγών). Non si poteva far piangere o ridere a proprio piacimento i personaggi, era il contesto a deciderlo, così come non si sarebbe potuto far scopare a proprio piacimento, come avviene oggi, gli attori ogni cinque secondi, e trasformare lo spettatore in quel voyeur che per altri versi la società condanna come pervertiti.

Non sarebbe stato possibile nel teatro antico presentare una fiction poliziesca e far vedere ogni cinque secondi un coito (di due poliziotti) che non ha niente a che fare col soggetto, con le indagini eccetera, pena i fischi assordanti del pubblico, che sarebbe stato di conseguenza, se le premesse fossero ancora queste (come sembrano credere e illudersi gli sceneggiatori arrapati), molto più raffinato intenditore di quello di oggi. D'altra parte i fischi oggi, per il pubblico televisivo e internautico, dovrebbero essere stati sostituiti dalle share e dagli share di gradimento, dalle percentuali. Così, alte percentuali di spettatori attratti da un coito dal quale sono esclusi satrebbero a indicare che l'estetica attuale richiede invece proprio questo, che la caratteristica più propria del contemporaneo è il voyerismo e la bava alla bocca.

mercoledì 30 luglio 2014

ancora su Eraclito: fratelli coltelli

Se grazie a film e a fiction sempre più allegre la civiltà  attuale è tutta incartata e rinserrata dentro sale operatorie e sale autoptiche e settorie, allora con questo gusto delle autopsie (ma appartiene a un più generale gusto dell'orrore e delle morti in diretta: di stragi, impiccaggioni, incidenti, omicidi, rapine, aggressioni, stupri: tutto mostrato in diretta)  se è concreto  questo gusto della autopsie guardate a colazione e a pranzo e a cena, seduti a tavola in famiglia, non suonerebbe più troppo strano (metafora originariamente ardita) il sentir paragonare da una colf la capacità critica di qualcuno, la sua intelligenza nel penetrare cose e concetti, a un bisturi, per quanto ci siano appunto sulla tavola oggetti più immediati e più facilmente utilizzabili per questo tipo di immagini, forchette e coltelli, ormai anche raffinati, meno impegnativi da maneggiare, da tenere in mano o stringere.

Così fratellli coltelli, anche nel caso della filosofia, delle lotte intestine tra scuole filosofiche, non vale più. Semmai fratelli bisturi, e anche se si perde la rima si acquista in ulteriore precisione - vedi le sottigliezze sempre più analitiche del contemporaneo filosofico. La grossolanità, dai convegni, è esclusa. La parola d'ordine, che ci si lancia da una cattedra all'altra è che l'analisi, il taglio, deve essere così continuo e preciso che nessuno deve capire più niente di niente. Tanto meno gli studenti, che d'altronde non hanno mai capito niente. E che si è intelligenti se non si è compresi, dimenticandosi che per essere Aristotele o Husserl o Kant non basta essere qui e lì incomprensibili - d'altronde tutta la Fenomenologia dello spirito di Hegel passa per opera altamente incomprensibile, da sbatterci la testa per anni e anni.

Ma vedi in Eraclito un gusto di veder tagliare ancora i concetti col bel coltellone da macellaio - il fendente menato a Pitagora con lo stesso coltello di cui l'accusa di farsi grande:

κοπίδων ἐστὶν ἀρχηγός (fr.81)

l'inventore dei coltelli!

martedì 8 ottobre 2013

fiction italiane e Controriforma




La trama i dialoghi le atmosfere delle fiction italiane sono in un certo senso da Controriforma, una cosa di cui lo spettatore non si rende conto semplicemente perché non è consapevole del ruolo che l'industria politico-televisiva gli fa incarnare nel mondo attuale, un