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venerdì 6 maggio 2016

Lisia e la banalità del male

Una delle pagine più commoventi della letteratura greca l'ha scritta l' "avvocato" Lisia - se si può trovare commovente un qualsiasi testo di un qualsiasi autore che riconosca e approvavi la distinzione tra liberi e schiavi (in quest'ottica, l'ipocrita sensibilità di oggi dovrebbe condannare oltre alle varie forme di schiavismo tutte le letterature antiche senza eccezioni, e a farne le spese sarebbero in primo luogo le cattedre universitarie, che tali letterature esaltano e grazie alle quali prosperano, coi vari professori e ricercatori che andrebbero a zappare la terra - vedi quando ho detto in La "morte" di una schiava e il cinema degli antichi ).

E' il passo dell'orazione che Lisia pronunciò nel 404 nel processo che intenta personalmente contro Eratostene, uno dei trenta boia fascisti insediatisi quello stesso anno, per soli otto mesi, dopo la sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso. E' il punto dove dice della morte del fratello Polemarco, comandata dai Trenta, che s'erano già appropriati dei suoi beni durante l'attacco ai metechi, gli "stranieri" residenti a Atene, tra i quali c'erano appunto Lisia - che era riuscito a scappare - e il fratello. E' una pagina che per la mancanza assoluta di pathos, di ostentata emozione, ottiene l'effetto opposto, quello di lasciare il lettore moderno senza parole di fronte alla narrazione della banalità del male, secondo la definizione del male che ha dato genialmente Hannah Arendt.

Πολεμάρχῳ δὲ παρήγγειλαν οἱ τριάκοντα τοὐπ' ἐκείνων εἰθισμένον παράγγελμα, πίνειν κώνειον, πρὶν τὴν αἰτίαν εἰπεῖν δι' ἥντινα ἔμελλεν ἀποθανεῖσθαι· οὕτω πολλοῦ ἐδέησε κριθῆναι καὶ ἀπολογήσασθαι. καὶ ἐπειδὴ ἀπεφέρετο ἐκ τοῦ δεσμωτηρίου τεθνεώς, τριῶν ἡμῖν οἰκιῶν οὐσῶν <ἐξ> οὐδεμιᾶς εἴασαν ἐξενεχθῆναι, ἀλλὰ κλεισίον μισθωσάμενοι προὔθεντο αὐτόν. καὶ πολλῶν ὄντων ἱματίων αἰτοῦσιν οὐδὲν ἔδοσαν εἰς τὴν ταφήν, ἀλλὰ τῶν φίλων ὁ μὲν ἱμάτιον ὁ δὲ προσκεφάλαιον ὁ δὲ ὅ τι ἕκαστος ἔτυχεν ἔδωκεν εἰς τὴν ἐκείνου ταφήν.

A Polemarco i Trenta intimarono ciò che per questa gente era all'ordine del giorno: di bere la cicuta. E lo fecero ancor prima di rendergli nota l'accusa per la quale doveva morire, facendogli così mancare processo e difesa. E appena il corpo fu portato fuori dal carcere non vollero che il corteo funebre partisse da nessuna delle tre case che noi possedevamo, ma avendo affitttato loro stessi una stanzetta lo fecero esporre lì. E pur avendo noi indumenti con cui vestirlo non concessero nemmeno questo alle persone che lo chiedevano, ma furono gli amici a dare chi un mantello chi un cuscino ognuno ciò che aveva per seppellirlo.



















giovedì 24 marzo 2016

La "morte" di una schiava e il cinema degli antichi

Bisognerebbe ammettere che tuttosommato gli ateniesi - e già a partire dal quinto secolo - un qualche sforzo per riconoscere l' "umanita" degli schiavi lo fecero, tanto è vero che quando ne veniva ammazzato uno, un eventuale processo si teneva nel Tribunale del Palladio, lo stesso che per gli stranieri, i metechi, e questo in accordo col sommo disprezzo che gli ateniesi e in generale i greci mostravano per tutto ciò che era estraneo alla purezza della polis. Non si sa quanto tali processi fossero affollati, ma anche lì non doveva mancare il divertimento, i colpi di scena, come si legge per esempio in un'orazione comunemente attribuita a Isocrate, ma sicuramente non sua, dove una schiava di cui si era falsamente denunciato l'omicidio (che fine aveva fatto il corpo?) e nascosta invece dagli accusatori, viene presentata dall'accusato viva e vegeta proprio durante il dibattimento:

Μάχης δ' αὐτοῖς γενομένης, ὑποκρυψάμενοι θεράπαιναν ᾐτιῶντο τὸν Κρατῖνον συντρῖψαι τῆς κεφαλῆς αὐτῆς, ἐκ δὲ τοῦ τραύματος φάσκοντες ἀποθανεῖν τὴν ἄνθρωπον λαγχάνουσιν αὐτῷ φόνου δίκην ἐπὶ Παλλαδίῳ. Πυθόμενος δ' ὁ Κρατῖνος τὰς τούτων ἐπιβουλὰς τὸν μὲν ἄλλον χρόνον ἡσυχίαν ἦγεν, ἵνα μὴ μεταθεῖντο τὸ πρᾶγμα μηδ' ἑτέρους λόγους ἐξευρίσκοιεν, ἀλλ' ἐπ' αὐτοφώρῳ ληφθεῖεν κακουργοῦντες· ἐπειδὴ δ' ὁ κηδεστὴς μὲν ἦν ὁ τούτου κατηγορηκὼς, οὗτος δὲ [ὁ] μεμαρτυρηκὼς ἦ μὴν τεθνάναι τὴν ἄνθρωπον, ἐλθόντες εἰς τὴν οἰκίαν, ἵν' ἦν κεκρυμμένη, βίᾳ λαβόντες αὐτὴν καὶ ἀγαγόντες ἐπὶ τὸ δικαστήριον κτλ. (In Cal., 52-53)

Essendo seguita una rissa [era questione di un terreno] nascosero una schiava e accusarono Cratino di averle spaccato la testa, e dissero che a causa della ferita la donna era morta. Intentarono perciò causa a Cratino di fronte al tribunale del Palladio. Cratino, avendo saputo delle loro beghe, non disse niente, si mantenne per tutto il tempo tranquillo, in modo che quelli non escogitassero qualcosa [probabilmente che ammazzassero loro la schiava] o inventassero un'altra storia, e in modo da prenderli in flagranza. Poi dopo che il cognato [di Callimaco] ebbe ribadito la sua accusa e che Callimaco ebbe testimoniato che la donna era morta, [Cratino e i suoi] andarono nella casa dove la donna era nascosta, l'afferrarono con la forza e la portarono in tribunale ecc.