La psicologia e la psicanalisi non sono altro che una collezione di strumenti grossolani e manipolatori sprovvisti di qualsiasi base strutturale, non in grado quindi, con tali presupposti, di rendere l'effettiva realtà dei movimenti interiori generati a livello molecolare e atomico. Alcuni scrittori riescono a descrivere in maniera incredibilmente sottile gli "stati d'animo", i passaggi continui tra uno "stato d'animo" e l'altro. Ma "stato d'animo" (o anche psicologia di un personaggio) resta una nozione dozzinale (la critica letteraria attinge a piene mani a questo tipo di "strumenti" critici): rivela nella sua infeconda genericità tutti i suoi limiti, dovuti essenzialmente alla mancanza di verificate corripondenze.
L'ugualmente generico concetto di forze d'attrito, ancora piuttosto in voga anche nei testi di fisica teorica, quanto meno quando si tenta di spiegare il senso di alcuni formalismi e astrazioni, si presterebbe molto meglio a definire i rapporti interpersonali: a determinare il visibile e il non visibile, se non altro per le sue più interne implicazioni fisiche. Una qualsiasi interazione tra due persone, nel momento in cui intervengono il corpo o la parola, comporta un tale sconvolgimeno "interno" (basterebbe misurare con un termometro ciò che avviene al corpo sotto la "spinta" della cosiddetta "invidia"), che il fatto può approssimarsi a ciò che succede a livello microscopico quando due superfici vengono a contatto generando calore, il quale non è altro poi che il risultato di una determinata media di tutte le interazioni elementari tra questi due corpi, quando il movimento viene passato ai cosiddetti gradi di libertà delle molecole e degli atomi - in più, la teoria degli errori, come si studia e si studiava quando studiavo fisica io e preparavo in laboratorio l'esame di fisichetta (esperimentazioni di fisica) starebbe lì in qualche modo a ricordarti che omnia munda mundis, che insomma la tua malafede è meno facilmente mascherabile con dei numeri. Una visione meccanicistica quanto si vuole ma ineludibile sul piano della concretezza sperimentale (chi ha detto che Dio è contro il meccanicismo visto che ci ritroviamo a fare i conti con l'immensa macchina dell'universo?)
La "scienza" psicologica, quindi, avrebbe tutto da guadagnare da un costruttivo mea culpa, se cioè iniziasse a considerare quello che effettivamente è stata finora: una grossolana descrizione di fenomeni macroscopici che non sa tener conto dei fenomeni microscopici, il cui unico strumento interpretativo non può che essere che la fisica statistica, quella che opera sulla nozione di media. In questo senso i moderni sondaggi - per quanto resi inutili dall'inguaribile guittismo dell'individuo, dalla sua insanabile tendenza alla menzogna, dalla sua insopprimibile paura - hanno posto le basi per una corretta impostazione del problema, modificando il generico concetto di "stato d'amimo" in quello di "coscienza collettiva". Naturalmente i risultati restano imprecisi: i fenomeni sono abbordabili ancora soltanto a livello macroscopico, come nel caso delle misurazioni elaborate da quei computer e programmi che misurano le reazioni di massa a eventi "epocali"; oppure c'è discrepanza tra risultati ed effettivo sentire, come nel caso della maggior parte dei sondaggi per la ragione accennata - problema che si era posto già san Benedetto nella sua Regola quando nella preghiera comune, nella salmodia, suggeriva che la mente (lo spirito) dovesse accordarsi con la voce (ut mens nostra concordet voci nostrae).
Ma intanto, in attesa di un perfezionamento di tali strumenti, l'uomo e la donna contemporanei continueranno a illudersi di possedere le chiavi della "conoscenza" dei propri movimenti interni, che ci siano "arrivati" da soli o con la guida di uno psicologo o di uno psicanalista. In questo Leopardi toppava completamente: l'uomo moderno viveva e vive tuttora come l'uomo antico, di magia e illusioni - tra le quali rientrano anche le poche "conoscenze" che gli vengono dalla volgarizzazione della scienza. L'unico modo in cui riesce a convincersi che l'ossessivo e arbitrario concetto hegeliano di progresso storico abbia un senso.
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venerdì 19 dicembre 2014
giovedì 18 dicembre 2014
il principio di Hamilton, il calcolo delle variazioni e la fisica col calderone
E' difficile immaginare al di fuori del mondo ascetico un'umanita che segua la strada del massimo sforzo. Non c'è niente in natura che non segua un principio economico. E questo dovrebbe indicare che l'umanità porta memoria della sua originaria conformazione, del fatto di essere nient'altro che un ammasso di atomi. E' paradossalmente una delle nozioni più stuzzicanti per lo studente di fisica, di fisica teorica (e lo era anche per me, quella sulla quale confesso di aver battuto la testa per quasi un mese per l'esame di meccanica razionale: se riuscivo a capirlo sul piano matematico, delle integrazioni anche piuttosto banali della lagrangiana, della differenza tra energia cinetica e potenziale, non riuscivo a darmene una ragione ultima: perché dovesse essere proprio così in natura e non l'opposto, perché la natura debba essere così pigra quando invece sulla pigrizia da sempre pesano gli anatemi di morali e civiltà "progressiste", che come la nostra hanno il culto della natura (in questi casi la matematica non mi ha mai aiutato): voglio dire il principio detto di minima azione, il principio di Hamilton, che in fondo non è altro, attraverso una formulazione variazionale delle equazioni lagrangiane, che una generalizzazione delle leggi della dinamica newtoniana, un grosso regalo alla successiva meccanica relativistica e quantistica.
Per comprenderlo oggi lo studente robot può anche fare il consueto salto di astrazione, eliminare qualsiasi necessità di interpretarlo macroscopicamente, di renderselo visibile, di intenderlo indipendentemente dalle nozioni di ricerca di minimo e massimo dei funzionali, di quelle funzioni cioè il cui dominio è un insieme di altre funzioni: tenendosi insomma ben lontano dalla concretezza dell'esperienza (la fisica si faceva un tempo col calderone e ogni formula sembrava essere qualcosa di direttamente visibile, fatto ancora evidente, se vogliamo, quando questi primi problemi variazionali venivano posti, quando Newton si domandava, nei Philosophiae naturalis principia mathematica, che forma dovesse avere il solido di rivoluzione di minor resistenza, un proiettile di fucile eccetera).
E tuttavia, se non ci si volesse limitare alla matematica, del principio di Hamilton (come di altri principi della natura), secondo il quale di ogni sistema meccanico esiste un integrale S, chiamato azione, che risulta minimo per il moto effettivo e la cui variazione δS non può che essere di conseguenza nulla, non si può andare oltre una sua descrizione qualitativa, non si può andare oltre il fatto che in un sistema meccanico conservativo, tra tutte le traiettorie che un corpo in assenza di vincoli ha a disposizione per spostarsi da un punto a un altro, la traiettoria effettivamente seguita sarà quella più economicamente, in termini di trasformazione energetica, appetibile, efficiente. In natura l'azione (un numero che ha la dimensione di un'energia per un tempo) è minimizzata sempre. Perché poi sia effettivamente così lo sa soltanto Dio. Se si lancia un bichiere per aria, questo non si metterà a seguire una serie di traiettorie sul modello montagne russe prima di ricadere per terra, andrà direttamente al sodo. Lo sa soltanto Dio perché la forza di gravità agisce in questo modo. E questo è tutto quello che si può dire.
Per comprenderlo oggi lo studente robot può anche fare il consueto salto di astrazione, eliminare qualsiasi necessità di interpretarlo macroscopicamente, di renderselo visibile, di intenderlo indipendentemente dalle nozioni di ricerca di minimo e massimo dei funzionali, di quelle funzioni cioè il cui dominio è un insieme di altre funzioni: tenendosi insomma ben lontano dalla concretezza dell'esperienza (la fisica si faceva un tempo col calderone e ogni formula sembrava essere qualcosa di direttamente visibile, fatto ancora evidente, se vogliamo, quando questi primi problemi variazionali venivano posti, quando Newton si domandava, nei Philosophiae naturalis principia mathematica, che forma dovesse avere il solido di rivoluzione di minor resistenza, un proiettile di fucile eccetera).
E tuttavia, se non ci si volesse limitare alla matematica, del principio di Hamilton (come di altri principi della natura), secondo il quale di ogni sistema meccanico esiste un integrale S, chiamato azione, che risulta minimo per il moto effettivo e la cui variazione δS non può che essere di conseguenza nulla, non si può andare oltre una sua descrizione qualitativa, non si può andare oltre il fatto che in un sistema meccanico conservativo, tra tutte le traiettorie che un corpo in assenza di vincoli ha a disposizione per spostarsi da un punto a un altro, la traiettoria effettivamente seguita sarà quella più economicamente, in termini di trasformazione energetica, appetibile, efficiente. In natura l'azione (un numero che ha la dimensione di un'energia per un tempo) è minimizzata sempre. Perché poi sia effettivamente così lo sa soltanto Dio. Se si lancia un bichiere per aria, questo non si metterà a seguire una serie di traiettorie sul modello montagne russe prima di ricadere per terra, andrà direttamente al sodo. Lo sa soltanto Dio perché la forza di gravità agisce in questo modo. E questo è tutto quello che si può dire.
mercoledì 17 dicembre 2014
ancora sul pupazzo italico. il cervello degli alieni
Che l'Italia sia una Repubblica democratica fondata sul lavoro lo dice la Costituzione, ma credo che una più giusta definizione (se i padri costituenti avessero avuto migliore capacità sintetica) sarebbe stata: L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul ritorno del pupazzo. Il pupazzo in politica non è tipico soltanto degli italiani, ma a differenza di altri popoli, che non si interessano minimamente di politica (inglesi, francesi, tedeschi eccetera) e si ritrovano il pupazzo di turno per puro caso, gli italiani lo vanno a cercare, se lo scelgono, passano mesi se non anni o decenni a guardarlo in televisione, a leggerne sui giornali. Indicano cioè l'esistenza di un meccanismo nevrotico, una coazione a ripetere. In realtà sarebbe un fenomeno molto più vicino ai fondamenti di una certa natura idealizzata dai fisici - ad esempio in termodinamica esiste la definizione di trasformazione ciclica. Mi ricordo una delle mie letture preferite di quando ero studente di fisica al biennio alla Sapienza: un libretto di Enrico Fermi, Thermodynamics, che lui stesso ricavò dalle note delle sue lezioni di fisica teorica del 1936 alla Columbia University. Dice Enrico Fermi:
Transformations which are especially important are those for which the initial and final states are the same. These are called cyclical transformations or cycles. A cycle, therefore, is a trasformation which brings the system back to its initial state.If the state of the system can be represented on a (V, p) diagram, then a cycle can be represented on this diagram by a closed curve such as the curve ABCD.
(Particolarmente importanti sono quelle trasformazioni nelle quali lo stato iniziale e quello finale sono gli stessi. Sono dette trasformazioni cicliche o cicli. Un ciclo quindi è una trasformazione che riporta il sistema al suo stato iniziale. Se lo stato del sistema può essere rappresentato tramite un diagramma (V, p), allora un ciclo può essere rappresentato con questo diagramma mediante una curva chiusa, come la curva ABCD).
La curva chiusa disegnata da Fermi, a illustrazione del concetto di trasformazione ciclica (ma avrebbe potuto disegnarne di altri tipi) è una sorta di ellisse, come una palla da rugby, inclinata, una specie di cervello di forma oblunga, come uno potrebbe immaginarlo in un alieno, almeno secondo le descrizioni dei visionari, di coloro che li avrebbero visti.
Transformations which are especially important are those for which the initial and final states are the same. These are called cyclical transformations or cycles. A cycle, therefore, is a trasformation which brings the system back to its initial state.If the state of the system can be represented on a (V, p) diagram, then a cycle can be represented on this diagram by a closed curve such as the curve ABCD.
(Particolarmente importanti sono quelle trasformazioni nelle quali lo stato iniziale e quello finale sono gli stessi. Sono dette trasformazioni cicliche o cicli. Un ciclo quindi è una trasformazione che riporta il sistema al suo stato iniziale. Se lo stato del sistema può essere rappresentato tramite un diagramma (V, p), allora un ciclo può essere rappresentato con questo diagramma mediante una curva chiusa, come la curva ABCD).
La curva chiusa disegnata da Fermi, a illustrazione del concetto di trasformazione ciclica (ma avrebbe potuto disegnarne di altri tipi) è una sorta di ellisse, come una palla da rugby, inclinata, una specie di cervello di forma oblunga, come uno potrebbe immaginarlo in un alieno, almeno secondo le descrizioni dei visionari, di coloro che li avrebbero visti.
domenica 14 dicembre 2014
bellezza e semplicità nella fisica
In un articolo del 1963 pubblicato su Scientific American e intitolato: "The Evolution of Physicist's picture of Nature" (sull'evoluzione dell'immagine che il fisico ha della natura), dedicato ai processi di simmetria e asimmetria delle equazioni, Paul Dirac dice che la simmetria quadridimensionale introdotta dalla teoria della relatività speciale non è esattamente perfetta ("is not quite perfect"), come apparirebbe dall'equazione della distanza invariante dello spazio tempo a quattro dimensioni
che può essere scritta anche invertendo i segni.
La mancanza di totale simmetria è nel fatto che il contributo della direzione temporale (c2dt2) non ha lo stesso segno segno del contributo delle tre dimensioni spaziali (- dx2 - dy2 - dz2 ).
Si tratta nel caso della relatività speciale di un fatto quasi irrisorio ("not quite perfect") eppure l'asimmetria sui segni più e meno resta lì, evidente.
Più in generale il fisico dovrebbe secondo Dirac lasciarsi guidare dall'intuito e dalla "bellezza" (beauty), anche quando i suoi calcoli non concordano con i risultati dell'esperienza, e questo perché potrebbe non aver apportato le necessarie correzioni. Quando Schrödinger elaborò la sua prima equazione d'onda, l'applicò immediatamente al comportamento dell'elettrone dell'atomo di dirogeno e i risultati non collimarono con i dati degli esperimenti. Ma, difatti, all'epoca non si sapeva che l'elettrone possiede un numero quantico (o spin).
Così dice Dirac, parodossalmente:
"Credo ci sia una morale in questa storia (quella di Schrödinger): che è più importante avere bellezza nelle proprie equazioni che non preoccuparsi che collimino coi dati degli esperimenti" (I think there is a moral to this story, namely that it is more important to have beauty in one’s equations than to have them fit experiment) e aggiunge:
"se Schrödinger avesse avuto più fiducia nel suo lavoro avrebbe potuto pubblicare la sua equazione d'onda molti mesi prima e in una forma più accurata" (If Schrodinger had been more confident of his work, he could have published it some months earlier, and he could have published a more accurate equation).
Il merito (ma che scopo ha il merito in ogni campo se non quello di alimentare l'onnipresente amor proprio) se lo presero (almeno sul piano relativistico) Klein e Gordon e così è conosciuta oggi l'equazione.
Ma ancora, il punto di tutta la questione è un altro: se sia giusto come dice Dirac lasciarsi guidare dalla bellezza in fisica:
"se si lavora prefiggendosi lo scopo di ottenere bellezza nelle proprie equazioni e se uno possiede un ottimo intuito allora si è sicuri che la strada è giusta" (It seems that if one is working from the point of view of getting beauty in one’s equations, and if one has really a sound insight, one is on a sure line of progress).
Probabilmente no, non è giusto: è vero che la maggior parte delle equazioni conosciute esercita sul piano dell'immagine e dell'immaginazione un'attrattiva che può lasciare, chi sa leggerle (anche in traduzione) senza fiato (e mi succedeva quando ero giovane studente di fiisica e prima di imbarcarmi per la tangente in tutt'altra direzione e tipo di studi, e mi succede ancora quando leggo un articolo specialistico di fisica - ma non si può dire quanto questo entusiasmo non sia dovuto al delirio, al fanatismo al gusto dell'osservatore della formula. E' giusto parlare invece di semplicità più che di bellezza. Non vi è niente di simmetrico nella formula del secondo principio della dinamica classica, newtoniana:
F = ma
qello che è vero è che è però di una semplicità sconvolgente. Ma l'equazione semplicità uguale bellezza lascia il tempo che trova: né bellezza è sempre semplicità né vale il contrario, e la dichiarazione di bellezza di un qualsiasi evento, apparizione eccetera è un fatto esclusivamente ideologico e manipolatorio (neanche soggettivo): così come un Giovanni Battista che predica nel deserto e mangia cavallette e si veste di pelli ispide appare bello in tutta la sua semplicità esclusivamente a chi ci vuol vedere la bellezza o a chi è stato educato a vedercela. Niente di naturalmente collegabile tra bellezza e semplicità. Pura ideologia.
ds2 = c2dt2 - dx2 - dy2 - dz2
che può essere scritta anche invertendo i segni.
La mancanza di totale simmetria è nel fatto che il contributo della direzione temporale (c2dt2) non ha lo stesso segno segno del contributo delle tre dimensioni spaziali (- dx2 - dy2 - dz2 ).
Si tratta nel caso della relatività speciale di un fatto quasi irrisorio ("not quite perfect") eppure l'asimmetria sui segni più e meno resta lì, evidente.
Più in generale il fisico dovrebbe secondo Dirac lasciarsi guidare dall'intuito e dalla "bellezza" (beauty), anche quando i suoi calcoli non concordano con i risultati dell'esperienza, e questo perché potrebbe non aver apportato le necessarie correzioni. Quando Schrödinger elaborò la sua prima equazione d'onda, l'applicò immediatamente al comportamento dell'elettrone dell'atomo di dirogeno e i risultati non collimarono con i dati degli esperimenti. Ma, difatti, all'epoca non si sapeva che l'elettrone possiede un numero quantico (o spin).
Così dice Dirac, parodossalmente:
"Credo ci sia una morale in questa storia (quella di Schrödinger): che è più importante avere bellezza nelle proprie equazioni che non preoccuparsi che collimino coi dati degli esperimenti" (I think there is a moral to this story, namely that it is more important to have beauty in one’s equations than to have them fit experiment) e aggiunge:
"se Schrödinger avesse avuto più fiducia nel suo lavoro avrebbe potuto pubblicare la sua equazione d'onda molti mesi prima e in una forma più accurata" (If Schrodinger had been more confident of his work, he could have published it some months earlier, and he could have published a more accurate equation).
Il merito (ma che scopo ha il merito in ogni campo se non quello di alimentare l'onnipresente amor proprio) se lo presero (almeno sul piano relativistico) Klein e Gordon e così è conosciuta oggi l'equazione.
Ma ancora, il punto di tutta la questione è un altro: se sia giusto come dice Dirac lasciarsi guidare dalla bellezza in fisica:
"se si lavora prefiggendosi lo scopo di ottenere bellezza nelle proprie equazioni e se uno possiede un ottimo intuito allora si è sicuri che la strada è giusta" (It seems that if one is working from the point of view of getting beauty in one’s equations, and if one has really a sound insight, one is on a sure line of progress).
Probabilmente no, non è giusto: è vero che la maggior parte delle equazioni conosciute esercita sul piano dell'immagine e dell'immaginazione un'attrattiva che può lasciare, chi sa leggerle (anche in traduzione) senza fiato (e mi succedeva quando ero giovane studente di fiisica e prima di imbarcarmi per la tangente in tutt'altra direzione e tipo di studi, e mi succede ancora quando leggo un articolo specialistico di fisica - ma non si può dire quanto questo entusiasmo non sia dovuto al delirio, al fanatismo al gusto dell'osservatore della formula. E' giusto parlare invece di semplicità più che di bellezza. Non vi è niente di simmetrico nella formula del secondo principio della dinamica classica, newtoniana:
F = ma
qello che è vero è che è però di una semplicità sconvolgente. Ma l'equazione semplicità uguale bellezza lascia il tempo che trova: né bellezza è sempre semplicità né vale il contrario, e la dichiarazione di bellezza di un qualsiasi evento, apparizione eccetera è un fatto esclusivamente ideologico e manipolatorio (neanche soggettivo): così come un Giovanni Battista che predica nel deserto e mangia cavallette e si veste di pelli ispide appare bello in tutta la sua semplicità esclusivamente a chi ci vuol vedere la bellezza o a chi è stato educato a vedercela. Niente di naturalmente collegabile tra bellezza e semplicità. Pura ideologia.
martedì 8 luglio 2014
la stupidità aiuta gli audaci
Non so quanto la fortuna aiuti gli audaci, di certo l’audacia impressiona gli stupidi.
La fortuna (nel bene o nel male) non è altro che il verificarsi di un evento inatteso. E’ inatteso perché non vengono previste tutte le possibilità. Maggiore è l’esperienza minore la possibilità che si parli di fortuna.
Un errore logico tradurre in Aristotele δύναμις (forza) con effetto, nella frase: αἱ γὰρ πολλαὶ μνῆμαι τοῦ αὐτοῦ πράγματος μιᾶς ἐμπειρίας δύναμιν ἀποτελοῦσιν (molti ricordi di uno stesso fatto realizzano la f o r z a di u n a esperienza). E in effetti sarebbe come invertire l’ordine della formula di Newton, F = ma, come se scrivessi: ma = F - la seconda forma è già derivazione di un processo logico. A chi sarebbe mai venuto in mente il chiedersi: vorrei sapere quanto mi dà il moltiplicare la massa per l’accelerazione?
Ciò che mi interessa è partire dall’intuitivo: il misurare l’intensità di una forza che osservo agire, fosse anche la caduta della mela sulla testa di Newton. Così potrò chiedermi che effetto può avere l’esperienza soltanto dopo aver fornito o riconosciuto all’esperienza una capacità, una forza di modificazione.
La fa ancora più distante dal vaso chi traduce il semplice forza di una esperienza con possibilità di compiere un'unica esperienza. Qui la forza dell'esperienza è andata completamente a farsi friggere, è diventata la forza dell'arbitrio di chi traduce.
martedì 24 giugno 2014
in scientiam versus. il diritto che zoppica
C’è un magistrato italiano - un procuratore della
Repubblica, neanche un sostituto fresco di concorso ma proprio il capo di una
Procura - che va affermando che “La nostra è una certezza processuale basata su
prove scientifiche praticamente prive di errore”. Il che, detto e ascoltato così, è già un’emerita scemenza, una boiata lessa, e qualcuno
dovrebbe dirglielo. E’ tanto una
scemenza che perfino i periti che lavorano e hanno lavorato al caso che lo interessa
hanno dovuto dare i risultati con un evidente margine di errore, piccolo quanto si vuole
ma ineliminabile.
Mi ricordo il biennio di fisica, che feci a Roma, alla Sapienza, prima di
passare non so più se a miglior lidi, a lettere classiche. Uno dei corsi del primo anno era Sperimentazioni
di fisica 1, detto volgarmente da noi studenti “Fisichetta”. A parte le
lezioni in aula, si passavano molte ore in laboratorio a fare misurazioni –
soprattutto il diametro di palline da ping pong, la sezione di aghi e di altre
cianfrusaglie simili, il tutto per poter imparare poi ad applicare le formule della
cosiddetta teoria degli errori. Non
esistono proprio misurazioni senza errori, nemmeno nella fisica atomica o nucleare. E il principio di indeterminazione di Heisenberg dice addirittura che di due famose grandezze, tanto più precisamente vorrò misurarne una tanto più incerti saranno i risultati della misurazione della seconda
Inoltre qualcuno dovrebbe riferire a questo magistrato che dire “praticamente prive di errore” è
un'ulteriore boiata logica all’interno di una boiata concettuale: un qualcosa (una formula, una proposizione, un'analisi ecc.) è sempre o semplicemente privo di errore o ne
riflette almeno uno. Non è ”praticamente”
privo di errore.
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