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martedì 21 ottobre 2014

i notebook inesistenti di Plutarco e Montaigne

Plutarco è forse l’autore dell’antichità che più di altri ha conosciuto una durevole, invidiabile e per certi versi inattaccabile fortuna (il Plutarco morale più che quello delle Vite), e in misura così eccelsa che perfino gli dei avrebbero di che lamentarsi; delle circa 250 opere che gli si attribuiscono ne restano un terzo, un numero ugualmente enorme per un autore antico. Non desta quindi meraviglia il fatto che, soprattutto a partire da una critica per così dire più “positivista”, gli siano state lanciate contro accuse (che hanno e avrebbero avuto in realtà poco senso per l’estetica antica, a meno che non si fosse trattato di ulteriormente screditare scrittorucoli dell’ultima ora) di blando riciclaggio e riutilizzo di materiali non suoi – vedi la Quellenforschung all’inizio del Novecento, secondo la quale mancava a Plutarco capacità creativa nel trattamento delle fonti; o i tentativi di smontarne l’opera per mezzo di quello strumento critico detto dei clusters of parallel passages, elaborato dalla Scuola di Lovanio negli anni Novanta sempre del secolo scorso (soprattutto da Luc van der Stockt e van Meirvenne, ripreso ancora da Verdegem), in altri termini di moduli che si ripeterebbero da un’opera all’altra e risalenti a un ipotetico “notebook” nel quale confluiva materiale che sarebbe potuto risultare utile per le opere a venire – strumento critico d’altronde di gran successo se viene tuttora testato su questa o quest’altra opera anche al di fuori della Scuola di Lovanio – e vedi anche un più recente lavoro sulla tecnica compositiva di Plutarco – con varie forzature - di Sophia Xenophontos (American Journal of Pilology, 133, 1 2012, pp. 61-91). E tuttavia, pur prendendo atto di alcune bellezze del gioco, alla fine si resta sempre incerti di fronte a tante certezze fondate sul nulla e bisognerà forse allora chiedersi se al di là degli entusiasmi dei dipartimenti universitari per l’uno o l’altro strumento interpretativo non abbia senso indagare in primo luogo le ragioni "vere" della incontrastata quasi bi-millenaria fortuna di questo autore, che in fondo scrisse semplicemente di morale, ossia di costumi, in uno stile tra i più elaborati di quell'epoca. Che è lo stesso che faceva un autore che citava ampiamente Plutarco - Montaigne, ugualmente accusato di saccheggiare a destra e a sinistra. E si troverebbe che in realtà questi due autori lessero, raccolsero materiale, e soprattutto provarono piacere (che è sempre un fatto stilistico e potentemente personale e già meno oggettivo) nel comporre e a volte ricomporre (cioè mettere insieme quasi musivamente senza che questo debba comportare una blanda ricopiatura o plagio o mancata riflessione) le tante tessere etiche o morali strappate alle loro letture-ricerche e ai loro ricordi – i due condividono non a caso anche un gusto della descrizione di ineliminabili tensioni autobiografiche:

ἀνελεξάμην περὶ εὐθυμίας ἐκ τῶν ὑπομνημάτων ὧν ἐμαυθῷ πεποιημένος ἐτύγχανον (Plu., De tranquillitate animi, 464f)

Ho scelto sulla tranquillità dell’animo dai ricordi di ciò che facevo con me stesso

e così anche Montaigne, già nell'avvertenza al lettore, è alquanto esplicito: i suoi saggi non sono altro che uno strumento offerto alla comodità di parenti e amici, che vi ritroveranno un giorno alcuni aspetti dei suoi stati e umori:

... à ce que m'ayant perdu (ce qu'ils ont à faire bien tost) il y puissent retrouver aucun traits de mes conditions et humeurs ...

Ovviamente non c’è nulla nel famoso passo del De tranquillitate animi che dica che questi ὑπομνήματα fossero note scritte, che fosse esistito una sorta di diario o serie di appunti – anche se sicuramente sarà ipotizzabile in una qualche misura; ma non al punto da farne, senza prove, una presenza così ossessivamente vera nei dipartimenti universitari, un oggetto perduto per sempre e quasi di culto (“but unfortunately they are lost”, Xenophontos; la quale Xenophontos poi è la prima a riconoscere che forse, come ritiene di aver spiegato, non è tanto questione di un “notebook” inteso come contenitore di patchworks, di materiale grezzo o semplici collezioni di elementi, quanto piuttosto di un insieme di bozze comportanti già una sorta di composizione e rielaborazione di dati tratti dalle sue fonti). 

sabato 11 ottobre 2014

Quel traditore di Ottaviano Augusto e gli scrittori di regime

Se l'orgoglioso Dante non si fosse fatto guidare dalla sua ideologia fondamentalista e teocratica (che una critica ridicola chiama "dottrina storica") e al posto di Cassio e Bruto avesse meso nelle fauci di Lucifero Ottaviano Augusto e Marco Antonio avrebbe fatto migliore e più giusta scelta, perché se ci furono traditori negli anni in cui cadeva la Repubblica (strumento, a sua volta, di latifondisti dallo stomaco senza fondo) proprio questi due furono i sommi, insieme ovviamente a Giulio Cesare - in epoca, oggi, in cui ognuno si riempie la bocca (e a vanvera) del termine democrazia (in termini moderni aveva iniziato Toqueville, con la sua convinzione di una, verrebbero accusati tutti e tre di attentato alla Costituzione e alto tradimento e se acciuffati prima di un capovolgimento delle sorti verrebbero in alcuni paesi perfino impiccati o fucilati. Così, il comune di Roma farebbe bene a cambiare il nome a piazza Augusto Imperatore e operare finalmente, su questa figura di bigotto ipocrita oltre che di feroce assassino, quella damnatio memoriae eterna che da due millenni le vittime dell'arbitrio si attendono; e la stessa cosa dovrebbe fare qualsiasi altra città nella cui toponomastica ricorre il nome di questo grissino erede di Cesare, il quale deve il potere unicamente a un attimo di stupidità di un Cicerone ormai provato e vecchio. Va da sé che insieme a lui cadrebbero anche Virgilio e Orazio, visto che la loro opera, la conoscenza della loro opera, è dipesa unicamente dal megafono di regime di questo traditore della sua patria.

Fece perciò bene questo sommo traditore a dire al nipote che di nascosto leggeva Cicerone - se l'aneddoto narrato da Plutarco è vero - che non c'era da vergognarsi, perché "era un uomo intelligente e amante della patria". Tanto amante della patria che lo fece ammazzare senza pietà e permise che i sicari di Marco Antonio, il suo degno e avvinazzato compare, gli mozzassero la testa e le mani, che facessero scempio di quel povero vecchio corpo. Tutte le altre fandonie, riportate anche da Plutarco, che Ottaviano avesse tentato per tre giorni (contrastando Marco Antonio) di salvargli la vita è tutta robaccia retorica che non è nemmeno degna di essere presa in considerazione da una qualsiasi storiografia che si rispetti.

E peccato ancora che Dante non abbia potuto citare proprio il Plutarco della Vita di Cicerone, la pagina finale in cui si commenta il modo disgustoso in cui Ottaviano, Marco Antonio e quel terzo pupazzo di Lepido si spartirono il potere con quelle loro private liste di proscrizione (l'edizione di Plutarco di Massimo Planude era proprio degli anni in cui veniva scritta la la Divina Commedia, e comuqnue Dante non conosceva il greco) e se l'avesse letta, fosse anche in latino, avrebbe comunque strappato quella pagina che non sarebbe tornata comoda alla sua delirante ideologia delle due massime potestà preordinate da Dio e di cui Cesare sarebbe stato l'incarnazione di quella imperiale:

Così per la rabbbia e il furore caddero fuori dalla ragione umana, e piuttosto dimostrarono come non vi sia belva più selvaggia dell'uomo quando alla passione aggiunge il potere.

(οὕτως ἐξέπεσον ὑπὸ θυμοῦ καὶ λύσσης τῶν ἀνθρωπίνων λογισμῶν, μᾶλλον δ' ἀπέδειξαν ὡς οὐδὲν ἀνθρώπου θηρίον ἐστὶν ἀγριώτερον ἐξουσίαν πάθει προσλαβόντος. Plu., Cic., 46,6)










martedì 4 giugno 2013

L'uovo e la gallina

                                      Wilamowitz e Sauppe

Voglio accennare a uno dei più gravi problemi che angustiano la vita di chi studia Plutarco. Sono stati  versati su riviste specialistiche fiumi di parole. La sostanza della questione è la seguente: quale delle due biografie Plutarco scrisse per prima, quella di Cesare o quella di Bruto?