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giovedì 6 novembre 2014

la massima allerta, i vicini di Goethe e il sarcasmo di Diogene

E' commovente osservare uno stato, una città, un paese nei momenti dichiarati di massima allerta, quando il danno è ormai alle porte. Allora ci si dimentica del proprio piccolo orticello e tutti si muovono in direzione della non più possibile salvezza. Cosa che quando il male era ancora soltanto una possibilità, anche questa azione comune restava una semplice ipotesi. E allora si potrebbe inserire questo imponente movimento collettivo sotto la rubrica del mal comune mezzo eccetera. Che è ciò a cui sembra alludere Edoardo nelle Affinità elettive di Goethe:

... dazwischen fließt der Bach, gegen dessen Anschwellen sich der eine mit Steinen, der andere mit Pfählen, wieder einer mit Balken und der Nachbar sodann mit Planken verwahren will, keiner aber den andern fördert, vielmehr sich und den übrigen Schaden und Nachteil bringt. (VI)

...  nel mezzo scorre il torrente, contro le cui piene uno si proteggerà con pietre, un altro con pali, e ancora un altro con tavole e il vicino a sua volta con steccati, ma nessuno si fornisce reciprocamente un aiuto e piuttosto apporta danno e svantaggi non solo a sé ma anche agli altri.

Ciò che succederà in seguito, nel momento tanto temuto di una piena, viene invece descritto da Luciano di Samosata nel suo opuscolo su come di debba scrivere la storia, dove i Corinti terrorizzati dall'imminente arrivo di Filippo sono adesso tutti all'opera e non pensano ad altro che a prestarsi aiuto vicendevolmente: chi mettendo armi in comune, chi portando pietre, chi rafforzando il muro di cinta. Neppure Diogene, a cui nessuno si era rivolto o aveva assegnato un qualche compito specifico, fa mancare (anche se sarcasticamente) il suo effettivo aiuto, la sua presenza, il suo exemplum. E quando lo vedono far rotolare su e giù per il Craneo la sua botte, e qualcuno gliene domanda il senso, la ragione, Diogene replica candidamente:

Κυλίω κἀγὼ τὸν πίθον, ὡς μὴ μόνος ἀργεῖν δοκοίην ἐν τοσούτοις ἐργαζομένοις. (Quomodo historia, 3)

Faccio anch'io rotolare la mia botte, di modo da non sembrare l'unico inattivo in tutto questo darsi da fare.




venerdì 26 settembre 2014

Demostene ovvero il comico inconsapevole

Il comico inconsapevole nasce sempre dal rapido contrastarsi di due diverse nature in una stessa persona, o di due diverse situazioni quando una prende improvvisamente il posto dell'altra - differente da umorismo e dalla comicità di chi vuol far ridere, il quale comunque è sempre debitore, imitatore del comico inconsapevole, obbligato al contrasto, se non al contratto.

Così Demostene, che si leggano le sue orazioni e discorsi tra le righe, o si legga quello che altri hanno scritto di lui, appare sempre e comunque un comico inconsapevole. La sua inconsapevole comicità (a parte i sassolini che infilava sotto la lingua per correggere i difetti di pronuncia e altre varie amenità - il rafforzare la voce e i polmoni pronunciando un discorso o conversando mentre correva, costringendo quindi anche il povero interlocutore a correre), lo studiolo che s'era fatto costruire sotto terra per potersi esercitare più tranquillamente, il radersi i capelli per costringersi a non uscire di casa per mesi - la testa rasata era segno di effeminatezza), la sua inconsapevole comicità nasce però più propriamente dal contrasto o conflitto di due nature: da una parte il coraggio della parola, che non aveva eguali (non avrebbe temuto, in questo senso, nemmeno Giove ottimo massimo), dall'altra la facilità con cui al più piccolo pericolo fisico se la faceva addosso. Cosa che aveva in comune con Cicerone, e forse con Cicerone aveva in comune quasi tutto, salvo il significato che ciascuno dava al denaro, più concreto in Cicerone (i soldi per Cicerone avevano il valore che avevano: servivano semplicemente a ottenere oggetti piacevoli: bei mobili, libri, opere d'arte - natura più generosa, a differenza di quanto si dice di Demostene, del suo essere avido).

Non è quindi un caso che dopo essersi ringalluzztio alla morte di Filippo, dopo aver tuonato e essere stato unico, per così dire, e incontrastato attore sulla tribuna del'assemblea del popolo, dopo essere riuscito a rinfocolare gli animi di tutta l'Ellade contro Alessandro, che chiamava sprezzantemente il "ragazzino", dopo aver ottenuto i soldi da Dario per finanziare i tebani contro la macchina bellica macedone, si affloscia in un attimo non appena giungono le prime avvisaglie che Alessandro sta marciando verso Tebe:

ἐπεὶ μέντοι τὰ περὶ τὴν χώραν θέμενος, παρῆν αὐτὸς μετὰ τῆς δυνάμεως εἰς τὴν Βοιωτίαν, ἐξεκέκοπτο μὲν ἡ θρασύτης τῶν Ἀθηναίων, καὶ ὁ Δημοσθένης ἀπεσβήκει, Θηβαῖοι δὲ προδοθέντες ὑπ' ἐκείνων ἠγωνίσαντο καθ' αὑτοὺς καὶ τὴν πόλιν ἀπέβαλον. (Plut., Dem., 23,2) 

Dopo aver sistemato gli affari domestici, (Alessandro)  apparve con le sue forze in marcia per la Beozia, e l'ardore degli ateniesi s'era già spezzato, e Demostene s'era afflosciato (spento): i tebani, traditi così dagli ateniesi, combatterono contro i macedoni e persero la città.

E giustamente Plutarco usa qui il piuccheperfetto, l'ardore degli ateniesi s'era spezzato, e Demostene s'era afflosciato: non c'era stato nemmeno bisogno di trovarselo davanti, Alessandro, di vederlo: era bastata la notizia che s'era mosso.

martedì 3 dicembre 2013

Il Battaglione Sacro e le lacrime di Filippo




 Non so se ad altri, ma sicuramente a me succede nel leggere un articolo specialistico, una monografia - ma anche un semplice post di internet, un breve commento entusiasta di un qualsiasi lettore - sul leggendario Battaglione Sacro, l'unità militare beotica considerata almeno fino al giorno della battaglia di Cheronea invincibile e formata, secondo la tradizione, da 150 coppie di amanti