martedì 3 dicembre 2013

Il Battaglione Sacro e le lacrime di Filippo




 Non so se ad altri, ma sicuramente a me succede nel leggere un articolo specialistico, una monografia - ma anche un semplice post di internet, un breve commento entusiasta di un qualsiasi lettore - sul leggendario Battaglione Sacro, l'unità militare beotica considerata almeno fino al giorno della battaglia di Cheronea invincibile e formata, secondo la tradizione, da 150 coppie di amanti
(per la verità di amanti e amati, ogni coppia costituita da un attivo e da un passivo, ossessione, quella del preciso ruolo sessuale assegnato a ciascun individuo, tipica di tutta l'antichità greca e romana) tendo a trascurare o a non prendere troppo sul serio l'aspetto più popolarmente mitografico, la questione erotica, l'eventuale legame affettivo che avrebbe funzionato da collante bellico; quello che invece m'ha sempre incuriosito dei pochi e tardi riferimenti della tradizione a questo corpo scelto della possente macchina militare tebana sono le ugualmente scarse notizie sul suo nome: Battaglione Sacro, cioè inviolabile, divino, posto sotto la protezione degli dei - mi pare difficile seguire la spiegazione di Plutarco, che cita il Platone del Simposio: il fatto che l'amore sarebbe sacro in quanto direttamente ispirato dagli dei. Di sicuro, se non mi sono mai posto la questione reale natura della relazione di quei soldati (se non si trattasse piuttosto del solito spirito di appartenenza) è perché Plutarco lascia la questione aperta, la lascia al gioco del gossip e delle parti, quando nella Vita di Pelopida scrive:

ἔνιοι δέ φασιν ἐξ ἐραστῶν καὶ ἐρωμένων γενέσθαι τὸ σύστημα τοῦτο

"alcuni dicono che questo corpo fosse composto di amanti e amati".

E' curioso poi come sia sempre stata data un'interpretazione per così dire forzata del passo in cui più avanti, in questo stesso testo, Plutarco dice a proposito di Filippo di Macedonia (il quale dopo la battaglia di Cheronea era giunto, passando tra i cadaveri, nel punto dove giacevano ammassati i trecento tebani ancora abbracciati gli uni agli altri):

πυθόμενον, ὡς ὁ τῶν ἐραστῶν καὶ τῶν ἐρωμένων οὗτος εἴη λόχος, δακρῦσαι καὶ εἰπεῖν· “ἀπόλοιντο κακῶς οἱ τούτους τι ποιεῖν ἢ πάσχειν αἰσχρὸν ὑπονοοῦντες.

"saputo che quello era il battaglione degli amanti e degli amati si mise a piangere e disse: 'muoia malamente chiunque sospetti che costoro facciano o si prestino a qualcosa di vergognoso'".

Il passo (Plutarco segue qui, a differenza che nella Vita di Demostene, la tradizione che voleva un Filippo sobrio dopo la vittoria, né esaltato né ubriaco) viene invece normalmente interpretato nel senso che tutti erano già morti:

che facessero o soggiacessero a qualcosa di vergognoso.

E forte è per la verità la tentazione di ricondurre i due infiniti del presente usati da Plutarco, nella loro tipica funzione modale, a un passato: ovvia espressione della durata di un'azione indipendentemente dal tempo, riconducibili, quindi, come sembrerebbe richiedere il contesto, a un effettivo passato rispetto a un Filippo che osserva i trecento corpi che giacciono ormai a terra - qui il greco di Plutarco, o perlomeno quello dei codici, non ammette neanche incertezze: si leggono chiaramente i due infiniti del presente uno dietro l'altro:

π ο ι ε ῖν: fare – che in greco può significare, in ambito erotico, essere attivi - vedi l'italiano mi ti faccio; e  π ά σ χ ε ι ν: subire – ma anche essere passivo, "fare la femmina" (e mi viene in mente un passo dell'orazione per la corona, il punto in cui Demostene, in un violento attacco contro l'avversario, contro Eschine, dice che la madre "viene chiamata" - che alcuni traducono erroneamente al passato, era chiamata - "Empusa" [il fantasma cioè di donna che prende mille forme] "a causa del suo fare e subire di tutto" (ἐκ τοῦ πάντα π ο ι ε ῖ ν  καὶ  π ά σ χ ει ν).

Sarebbe tuttavia, come anticipavo, nel caso di Plutarco, un'arbitraria forzatura il voler riferire quei due presenti al passato, e farlo sulla base di mere considerazioni di logica: se erano morti che altro puo significare? In realtà, così usati, i due infiniti del presente, retti da un participio pure al presente, si prestano ugualmente bene a indicare una durata nel contemporaneo senza che ciò debba comportare, come si vedrà, una perdita di logica nella narrazione. Intanto ci sarebbe da chiedersi per quale motivo Plutraco - o la fonte da cui attinge - non usi qui un infinito aoristo se l'idea era quella di intendere che Filippo marcasse una distinzione tra un supposto passato di quei Tebani e la loro attuale condizione di morti. Quando ne avverte il bisogno, quando è il caso di distinguere, Plutarco non si fa pregare. Vedi per esempio nell'ottavo libro delle Quaestiones conviviales, dove Erode discute del perché la palma sia la pianta riconosciuta da tutti come la più adatta nelle premiazioni (tra l'altro rigettando una paradossale spiegazione che veniva data ai suoi tempi: il riferimento a una sorta di antropomorfismo della palma, un certo spirito agonistico che le sue foglie incarnerebbero, le quali, una opposta all'altra, ambirebbero, ognuna per sé, singolarmente, in una specie di interna competizione, a ottenere il primato:


ἔτι δ᾽ ἀπιθανώτεροι τούτων εἰσὶν οἱ τὸ κάλλος καὶ τὴν εὐφυΐαν ἀ γ α π ῆ σ α ι τοὺς παλαιούς, ὡς Ὅμηρον ‘ἔρνεϊ φοίνικος’ ἀπεικάσαντα τὴν ὥραν τῆς Φαιακίδος, ὑ π ο ν ο ο ῦ ν τ  ε ς.

e inoltre si avvicinano di più al vero coloro che sospettano che gli antichi ne amassero la naturale bellezza della forma, così come avvenne che Omero paragonasse la bellezza della Feace a una giovane palma.

Qui insomma Plutarco, pur indicando una durata, usa l'aoristo, senza problemi. Si potrà obbiettare che si rifersice a un passato arcaico. Ma è proprio questo il punto. Il brano della Vita di Pelopida mi pare esattamente per ragioni analoghe (il fatto che invece qui non si tratti di un passato arcaico) volutamente ambiguo: a voler indicare sia un passato che un presente: la battaglia si è appena conclusa, agli occhi di Filippo una parte dei componenti del Battaglione Sacro era sicuramente ancora in vita, o ad ogni modo Filippo poteva pensarlo. Che muoia malamente chiunque sospetti costoro di essere capaci di fare o subire qualcosa di vergognoso. E per dirla tutta, anche ammettendo che fossero tutti morti - e bisognerebbe immaginarsi un Filippo che vada a tastarli uno per uno con un medico al seguito - quei corpi sono dopotutto ancora caldi. Filippo li ha in un certo senso ancora vivi davanti a sé dopo la battaglia. C'è un passato, nel suo giudizio, ma c'è anche un presente. Ciò che invece si coglie di interessante, in questo passo della Vita di Pelopida, è il fatto che se le parole di Filippo indicano chiaramente che correvano maldicenze sul Battaglione Sacro, le sue stesse parole e il suo pianto, lungi dal significare una condanna del supposto rapporto omoerotico, finirebbero invece per valorizzarlo. Come si può sospettare, sembra dire Filippo, che "un qualsiasi" comportamento di costoro, che hanno mostrato qui tanto valore, possa considerarsi riprovevole?


Queste semplici ragioni di natura testuale si sposano d'altronde con i risultati degli scavi della fine dell'Ottocento nella zona teatro della battaglia, quando furono rinvenuti 254 scheletri all'interno del perimetro guardato e protetto dal famoso leone fittile, scoperto, quest'ultimo, quasi cento anni prima. La tesi di Hammond e di Beloch, che i resti fossero in realtà di soldati macedoni, non ha molto senso se puntellata da considerazioni quali quelle addotte, che cioè i Tebani non avrebbero mai osato innalzare un monumento ai loro caduti con Filippo ancora in vita. Sarà piuttosto vero il contrario se Filippo, da grande opportunista qual era, finì per forzare  i Tebani a versare un grosso tributo, il prezzo da pagare se volevano seppellire i loro morti. Thebanorum porro non solum captivos, verum etiam interfectorum sepulturam vendidit, scrive Giustino nella sua epitome delle Storie di Pompeo Trogo. Insomma, Filippo fece mercato non solo dei prigionieri ma anche delle sepolture. Un affermazione che se giustifica la presenza di quel monumento funebre viene a sua volta da questo giustificata. Ma su questo aveva già ragionato, e con osservazioni appropriate, Kendrick Pritchett nel 1958, in un ben organizzato articolo dell'American Journal of Archeology. Anche se poi pure l'intelligente Pritchet alla fine cade nell'errore di ripetere un antico luogo comune su quella che sarebbe stata la sorte dei trecento, e attribuisce a Plutarco cose che che in effetti Plutarco non ha mai detto:

"When Plutarch states the three hundred were lying dead he probably means the number as an approximation" (p.311). 

Plutarco non dice che i trecento erano morti ma che giacevano a terra. I cadaveri di cui parla, in mezzo ai quali Filippo passa a battaglia conclusa prima di giungere nel luogo dove erano i trecento, appartengono ovviamente a entrambi gli schieramenti; tra i caduti quindi andranno compresi, oltre ai Macedoni, anche un gran numero dei circa novemila opliti ateniesi, che all'inizio erano schierati all'ala sinistra, a fronteggiare cioè l'ala destra avversaria, al cui diretto comando c'era lo stesso Filippo.




 

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