lunedì 29 aprile 2013

La medicina i germi e la letteratura. Un ricordo di Isaac Bashevis Singer




                            Brueghel il Vecchio - La parabola del cieco


Dice Neville, il personaggio del mio romanzo inglese citato nel post su Chatwin, che l’inglese parlato a Londra è una realtà polverosa (dusty) se lo si confronta con l’inglese di New York. Polveroso è un termine che non saprei come meglio definire; ed effettivamente in generale non saprei dare nessuna spiegazione delle cose che scrivo se non che il modo in cui le scrivo è il miglior modo in cui  potrei farlo.

Oggi credo che Neville, che parlava in epoca post-Thatcher, quando a governare la Gran Bretagna c’era l’anche più grigio Major, verrebbe a contatto, tornando a New York, con un inglese newyorkese meno magico, e forse più asettico: di sicuro non ritroverebbe più molti di quei piccoli caffè dove gli piaceva andare sulle orme di Isaac Bashevis Singer (che scriveva in yddish) alla ricerca di qualche volto che pensa di aver perduto per sempre - e di cui parla a Fanfan, il giovane narratore, che ormai teme di essere finito nelle mani di uno psicopatico:
 
   ‘… perhaps death is not the end, and people do miraculously live on, even if just in the memory of those who knew them.’
    
   “... forse la morte non è tutto, e le persone continuano a vivere, fosse anche nella memoria di chi le ha conosciute. Ma sono veramente morte?”

Ma proprio grazie a Singer, cioè grazie alla letteratura, Neville ritrova ugualmente la sua New York: il luogo di ogni possibile incontro, anche con chi crede che sia già morto. E quando scrivevo questo romanzo mi sembrava di capire che Neville fosse andato a New York proprio per cercare di ritrovare nelle sue strade, in uno dei tanti volti di quella città, sua nonna Zita, che in punto di morte gli impedirono di vedere, rinchiusa in una stanza asettica. La rivide soltanto nella forma impalpabile di una colonna di fumo che saliva dalla ciminiera del crematorio. Il suo pensiero, allora, era stato abbastanza frivolo, forse perché sognava o immaginava che l’avrebbe comunque nuovamente incontrata. Dice tranquillo, a un Fanfan circospetto, che di quella cremazione l’aveva incuriosito soltanto un particolare tecnico:
  
   “Nel momento in cui Zita veniva cremata, qualcuno – credo fosse l'impiegato delle pompe funebri – mi disse che le differenti parti del corpo bruciano separatamente. Una cosa che già sapevo, ovviamente: il teschio resta intatto fino alla fine. E poi esplode” (‘the skull is left to the last. It explodes’).
  
Non si riesce a capire se Fanfan, che sta diventando cieco, creda veramente all’inquietante Neville quando Neville gli dice a un certo punto di essere un medico. Non sembra nemmeno voler capire se ci sia ironia quando dopo vergli detto che l’ultimo libro di Singer è una fogna di noia (totally dreary), Neville aggiunge, su quei suoi possibili incontri con gente scomparsa:
  
“I haven’t ever really recognized anybody, though I haven’t given up looking …”
  
“Non ho mai riconosciuto nessuno, anche se ovviamente non ho mai smesso di guardare …”


sabato 27 aprile 2013

I premiati cementifici anonimi




                            Giacomo Guardi - arco in rovina

Una volta ero con un’amica italiana, professore di filosofia in America, facevamo una passeggiata in mezzo alle rovine di Roma (due nomi che sembrano allitterare meravigliosamente). All'improvviso, con la sua bella voce profonda, indignata dalla tanta rozza presunzione dell'attuale modernità e affascinata dall'antichità traboccante di suggestioni in mezzo alla quale eravamo, esclama: “guarda tu che cosa hanno saputo lasciarci questi!”, e lo ripeté una seconda volta, ma questa volta accorata: “che cosa non c’hanno lasciato!” Io stavo per dirle: “C’hanno lasciato le rovine!” Ma non lo feci, non volevo distruggerle quell’attimo d'emozione che le veniva da un “apprendimento fenomenologico delle cose”, come lei lo chiama.

E' passato solo qualche anno, eppure, nonostante continui a preferire il moderno all'antico, mi viene di tanto in tanto da capovolgere tutto: mi viene da credere che due solide pietre da costruzione del primo secolo dell'era pagana, ideate e lavorate per rispondere a un salutare principio di ordine, riescano forse a dare anche oggi veramente più emozione di tutta quest’anarchia incontrollata dell’architettura contemporanea, di cui sono un cultore, ma i cui materiali, i cui elementi costruttivi escono dalle officine uno uguale all’altro. Non me n'ero mai accorto. Agli antichi sarebbero sembrati degli incredibili cloni di una stessa pianta. In greco clone significa appunto germoglio. 

venerdì 26 aprile 2013

Il mio nome è Legione

Il benessere dell’amico equivale al nostro benessere. Chi non ha capito questo semplice fatto ha capito poco o niente della vita. Non ha capito niente nemmeno del suo amor proprio. Non gli resta che scendere, come dice Paul Valéry, dentro di sé armato fino ai denti. Dice infatti Gesù: “spirito immondo, esci da quest’uomo!”. Poi gli domanda: “qual è il tuo nome?” "Il mio nome", risponde l'indemoniato, "è Legione”.



giovedì 25 aprile 2013

Sei un vero romanziere?




                            Il gioco degli ochi 

Come riconoscere se sei un vero romanziere?

1.  Da ciò che scrivi: cioè da come scrivi, e per il fatto che i tuoi personaggi s'impongono come veri fin dalle prime battute. La narrativa è arte realistica, anche quando appartiene alla letteratura fantastica - ad esempio l'Orlando Furioso, con tutti i suoi ippogrifi e le sue invenzioni fantastiche, è una delle opere più realistiche che ci siano. E perché?

2. Per via della lingua che usa. In questo senso, tra gli autori viventi pubblicati dalle grandi case editrici oggi in Italia, l'unico vero romanziere, anche quando scrive diari di viaggio è (a parte casi ancora nascosti) Aldo Busi: tutto il resto è piattume narcisistico e campagne di marketing. Soltanto Aldo Busi sa imitare, con  le sue frasi, l'effettivo movimento del suo tempo (a parte ovviamente Moresco di Lettere a nessuno, e Camilleri dialettale). Prima di lui c'erano Sciascia e, ancor prima di Sciascia, Gadda.

3. Un vero romanziere non prende mai partito per l'uno o per l'altro dei suoi personaggi: riflette sempre il suo tempo come uno specchio più o meno deformante e per questo ne preannuncia profeticamente gli sviluppi, li anticipa (per questo l'ultima parola spetta sempre ai posteri).

4.  Un vero romanziere (salvo rari casi in cui si trova suo malgrado a far parte della cricca) viene sempre inizialmente rifiutato dagli editori: anzi sputa letteralmente sangue prima di arrivare a vedersi riconosciuto, e il più delle volte lo è soltanto quando è già norto; e questo perché gli editori non capiscono un'acca della vera letteratura, capiscono solo, giustamente, come fare soldi. Non esistono editori che mirano alla qualità, e quando lo dicono, se non è pura tartufata, chiudono presto. Riconoscono un vero romanziere soltanto quando improvvisamente il manoscritto capita sotto gli occhi della persona giusta, che per sbaglio hanno assunto come lettore.

5. Un vero romanziere non ha mai seguito corsi di scrittura, né mai li seguirà né oserà organizzarli, a meno che non stia morendo di fame o non abbia un cravattaro nascosto sotto casa. Corsi di scrittura e vero romanziere sono aspetti insanabilmente contraddittori. Un vero romanziere osserva - senza poterci far niente - unicamente il suo tempo, e studia soltanto i grandi autori che l'hanno preceduto per capire come questi hanno risolto un certo problema di espressione e di imitazione del reale.

6. Un vero romanziere non proviene mai da anni di autocompiacimento nel mondo universitario, come è il caso di Umberto Eco e di altri felici universitari che si sono di punto in bianco scoperti romanzieri. I veri grandi professori universitari, rarissimi oggi, coloro cioè che scrivono i loro saggi meravigliosi centellinando le singole parole, lo sanno benissimo.

7. Umberto Eco è un vero romanziere? No. La lingua del Nome della rosa non solo fa cadere i cosiddetti tommasei ma non riproduce nulla del movimento del reale. E' puro gioco accademico, ragionieristico: è sfruttamento di una moda, un gusto del mistero, del Medioevo, di cui Eco si è occupato. Riproduce il reale solo nell'ottica dello sfruttamento della fame che il lettore ha del passato.

8. Quando inizia a scrivere un grande romanziere? Praticamente nel momento stesso in cui si rende conto che le parole sono soltanto un riflesso della realtà: che servono cioè a indicare le cose, gli oggetti, quindi intorno ai sei sette anni. E inizia a farlo scrivendo mentalmente i suoi futuri romanzi. A osservare il mondo dall'esterno pur standoci all'interno. Non ha bisogno di un'agendina.

9. Perché c'è oggi questa corsa a voler essere romanzieri? Per il semplice motivo che mai come oggi si era arrivati a essere talmente infatuati della propria immagine da convincersi non solo che si possano creare personaggi concreti senza essere veri romanzieri, ma che la propria vita valga veramente la pena di essere raccontata, cosa a cui un vero romanziere non ha mai creduto, nemmeno quando si chiama Proust, la cui vita ha avuto ai suoi occhi solo un'importanza relativa, utile a metterlo in contatto con ciò che doveva essere narrato.

10. Ho l'ispirazione, ho scritto un romanzo, e a chi me lo chiede potrei dire esattatemente come l'ho costruito. Sono un vero romanziere? No. Uno degli sceneggiatori del Grande sonno, avendo problemi con alcune parti del libro, prese a rincorrere Chandler da un albergo all'alltro del Nord America. Quando finalmente riuscì a beccarlo gli disse: "Senta, Chandler, c'è questa frase del suo romanzo, non capisco che vuole dire". E Chandler: "Ma cosa vuole che ne sappia, io ..."

11. Chiunque può diventare un vero romanziere? Si rileggano tutti i punti dall' 1 al 11 compreso.




mercoledì 24 aprile 2013

Le risate di Giacomino Leopardi


Bruegel il Vecchio - Tre tre giù giù


C’è in greco antico delle frasi che hanno, come in questa mia frase, il verbo al singolare e il soggetto al plurale. E succede non solo coi nomi neutri, che sarebbe d’obbligo, ma anche coi nomi maschili e con quelli femminili. È anche vero che si tratta di casi rari, e che a questa costruzione piuttosto allegra si dà un nome particolare e altisonante: schema pindarico, sicuramente per il fatto che Pindaro, il poeta dei vincitori delle Olimpiadi, ne fa a malapena uso. Curiosamente, il contrario non funzionerebbe, nemmeno in italiano: difficile poter dire: ci sono una frase, anche se poi, omnibus non perpensis, cioè al di fuori di ogni dramma, quale sarebbe il dramma? Eppure internet è pieno di forum dove fioccano una dietro l'altra domande preoccupatissime su come si debba scrivere una certa parola: se è meglio usare coscia o cosca, o quale sia il vero plurale: se cacce o caccie o cacche, quale la vera e giusta preposizione: se indulgere a o indulgere in. E piovono risposte di tutti i tipi: si inizia in genere col citare il Treccani e si finisce nel patatrac del Treggatti - e ogni tanto, anche se non così raramente, nel superpatatrec del Tommaseo, dizionario che tuttavia amava Sciascia (come fonte di citazioni).

Leopardi, che venne ostacolato in tutti i modi da una banda anzi da una gang non di scrittori ma di letterati, di eccelsi mediocri, i quali in effetti gli tolsero in vita quella fama a cui aspirava (e in questa gang di mediocri senza talento c’era anche il Tommaseo) dettava un giorno al suo amico Ranieri - il quale scriveva di malavoglia viste le volgarità a cui Leopardi si stava abbandonando - che "Monti usava d'esclamare in un significato singolarissimo: oggi mi dolgono i tommasei"; inizio di un capolavoro perduto perché immediatamente Ranieri, come lui stesso racconta, si alzò e disse: "Leopardi, tu sai s'io sono devoto a te e alla tua gloria, ma ti prego di non continuare ". E lo invitò anzi a distruggere quanto aveva fino a quel momento dettato. Cosa a cui Leopardi, che era un angelo, acconsentì di buon grado. Il che è anche una conferma della sua natura giocosa e solare, tutt'altro che morbosamente cupa o depressa, come tanto a vanvera si racconta nel mondo. Lo Zibaldone infatti, bibbia filosofico-linguistica, è un monumentale inno al sole dell’intelligenza. E non a caso Giacomino, grande amante di gelati e sorbetti, se ne andò tranquillamente a morire a Napoli, quando lo Zibaldone, tra l'altro, l'aveva già chiuso da un pezzo, perché aveva già detto tutto quello che aveva da dire. Pare che le ultime parole dette a Ranieri, prima di spirare, siano state: io non ti veggo più!



martedì 23 aprile 2013

Traditore: colui che consegna l’amico (o chi gli ha creduto) al peggior nemico possibile


                                         Holbein - Ultima cena

È sempre difficile riconoscere un traditore prima che il tradimento si sia manifestato. La miglior cura, a differenza che nella medicina, è la prevenzione: e nei rapporti intersoggettivi la prevenzione è la precisa conoscenza di chi ti sta vicino. Non mi viene in mente miglior esempio, nell’antichità, di quanto riporta Arriano nell’Anabasi. Un giorno che Alessandro appariva gravemente malato e tutti i medici erano ormai convinti che fosse spacciato, soltanto uno di loro, Filippo di Acarnania, uomo al suo seguito, medico stimatissimo in tutto l’esercito, disse che sarebbe bastato un semplice purgante. Alessandro disse che l'avrebbe preso. E mentre Filippo, insieme a lui nella stessa tenda, glielo preparava giunse ad Alessandro una lettera di uno dei generali, che lo metteva in guardia proprio da quel Filippo medico, che secondo alcuni stava per avvelenarlo avendo preso soldi da Dario. Alessandro finì di leggere la lettera e quindi la passò a Filippo, mentre Filippo gli passava a sua volta il purgante. E prima che Filippo terminasse di leggere, Alessandro aveva già bevuto.


                                          Alessandro in sella a Bucefalo

Ovviamente si rimise in sesto. Qui sorge una prima e una seconda questione, che sono collegate. Quanti altri leader, nei panni di Alessandro, che aveva allora una ventina d’anni e era al culmine della sua gloria, avrebbero fatto la stessa cosa? E perché l’umanità ha conosciuto soltanto un Alessandro che venga detto semplicemente il Grande?

                                                    Ciro Ferri -Alessandro legge Omero

domenica 21 aprile 2013

Istinto batte Etica 1 a 0



                            Simone Martini - Guidoriccio

Secondo un racconto di Plutarco, quando un ragazzo spartano partiva per la guerra la madre gli dava il suo viatico morale: torna con quello scudo in mano oppure su di esso, cioè comunque carico di gloria. Vigliacchi o traditori non erano ammessi.

Non so quante donne italiane oggi rivolgerebbero lo stesso augurio a un figlio che parte per le missioni ONU. Leggo che Cicciolina, l’ex porno diva naturalizzata italiana e ex deputato radicale, è stata condannata per aver difeso il figlio dalla baldanza dei carabinieri, che erano andati a arrestarlo per spaccio di droga: “fate attenzione a quello che fate”, pare abbia detto, “perché parlerò con persone importanti”. Si ignora chi siano queste persone importanti, e se siano esattamente queste le parole usate da Cicciolina e riportate dai giornali. Di sicuro c’è stato un processo. Il problema è che non si capisce quale madre o padre non difenderebbe i figli ad oltranza. E’ quindi un fatto di istinto, l’etica alla fine ci sbatte il grugno. Istinto (elemento biologico)  e etica (elemento sovrastrutturale) si fanno la guerra, e sono votati a farsi una guerra perpetua finché uno dei due non cede, a differenza dell’orgoglio e del pregiudizio, come per esempio  nel romanzo di Jane Austen, dove alla fine cedono entrambi (ma sono due facce di una stessa medaglia). D’altra parte si provi l’etica a opporsi a quella donna ternana che si batteva una mano sul petto, e che ho sentito un giorno in un bar dire incazzata a una persona che era con lei (una questione economica): "io ho da pensà pe’ ‘o fiiu mia!". Gli occhi le uscivano dalle orbite, una menade più che una spartana.

                                          Giotto - Scene dalla vita di Gioacchino

Tra i tanti videogames giapponesi sviluppati per i cellulari ce n’è uno in cui compaiono delle creature coi capelli verdi, chiamate in effetti menadi: personaggi che escono fuori casualmente nelle ultime regioni. Il giocatore può decidere di combatterne una o tre insieme. Si considerano superiori agli umani e sono state mandate sulla terra dal boss finale, il Creatore.      

sabato 20 aprile 2013

In Patagonia la leggenda del ritorno. Un flash su Chatwin


                                  Annalisa Parisi - Cavalli al pascolo, Massiccio del Fitz Roy, Patagonia

La berberis buxifolia è un arbusto che supera normalmente i due metri di altezza. È il simbolo della Patagonia, ed è conosciuto volgarmente come calafate, un termine della lingua dei Tehuelche, la lingua Chon. Con i suoi frutti si produce una marmellata che è tra le più gustose. Si dice che chi assaggi una di queste bacche sferiche, che hanno un colore che può andare dal blu al porpora, avrà la certezza di tornare un giorno in Patagonia.

Non ricordo se Bruce Chatwin, di cui è abbastanza conosciuto il diario del suo viaggio in quelle zone, le abbia provate, quelle bacche, e se i versi del poeta svizzero Cendrars ("non c'è che la Patagonia, la Patagonia che si adatti alla mia immensa tristezza") abbiano continuato a tormentarlo. So solo che quando lo vidi in un’ultima intervista alla televisione inglese, un po’ prima che morisse - l’immagine di uno scheletro - non faceva più pensare al Chatwin di cui parla Neville, il misterioso personaggio di un mio romanzo inglese, che lo descrive al giovane narratore in un momento in cui sembra dissolversi una loro precedente tensione (e mi viene da citare le prime righe proprio nell'originale):

   'Oh, yes ... He was a variation of that old type, the English explorer.  A valiant chap.  But he was modern, more sophisticated.  Nonetheless of the same breed.  And then ... he wrote a succession of books ... I think half a dozen.  I read most of them ... But how did I discover him?'
   'Kaleidoscope?'

che poi ho riscritto in italiano :

   “Questo autore”, mi dice Neville, “fu una variante di un vecchio modello già esistente: l’esploratore inglese, uno di quei tipi veramente tosti, anche se lui era già più moderno, più sofisticato. Eppure appartenente alla stessa razza. E poi scrisse una serie di libri, credo una mezza dozzina. Li lessi quasi tutti … Ma come lo scoprii? Questo è il dilemma …”
   “Caleidoscopio?”, faccio.
   “No”, fa lui. “Credo lessi semplicemente un articolo di un vecchio giornale, che avevo usato per incartare alcune tazze ... Fu quando traslocai nel mio nuovo appartamento ... Avevo avvolto tutte le mie poche cose e tutti quei miei insignificanti piattini in alcune pagine di giornale, e quando arrivai nella nuova casa e cominciai a fare un po' d'ordine trovai la foto di questo favoloso personaggio dai lineamenti incredibili: era Bruce Chatwin! E pensai: che cosa inusuale per un uomo così bello chiamarsi Bruce. Tutti i Bruce che avevo conosciuto erano uno più brutto dell'altro. E invece avevo adesso l'immagine di quest’uomo di straordinaria bellezza. E in più era uno scrittore. Così mi dissi: devo assolutamente leggerlo … E comprai Sulla collina nera ...”

Sulla collina nera è solo la storia di due fratelli in un villaggio del Galles, entrambi talmente attaccati l’uno all’altro che nessuno dei due riesce a sposarsi; ma di sicuro il Galles è stato centrale pure nel suo libro sulla  Patagonia, dove si parla di gruppi di agricoltori che emigrarono in quelle lontanissime regioni mi pare nell’Ottocento. Di una di queste sperdute comunità, che ancora parlano gallese, Chatwin andò alla ricerca. 

Non saprei dire se Neville abbia visto giusto riguardo alla bellezza di Chatwin. Resta il fatto che l’immagine pubblica che questo narratore ha lasciato di sé non è certo quella di uno scrittore a cui piacesse far capannello, unirsi coi suoi simili in un salotto o in un ristorante di una grande città. Non che ce ne siano molti di veri scrittori a cui piace incontrarsi nei momenti liberi coi propri pari, così come in fondo è difficile che un carrozziere la sera  preferisca vedersi con altri del mestiere. Chatwin però li riunì un po’ tutti, alla fine. Dice sempre Neville a Fanfan, lanciandosi in un inaspettato viscerale attacco contro un autore caratterialmente e stilisticamente diverso dal suo eroe:

   “È strano come certi scrittori in certe situazioni tendano a socializzare. Salman Rushdie era amico di Bruce Chatwin. E così un bel giorno quell’altro scrittore, come si chiama? … Paul Theroux, mi pare ... sì, si chiama così  … Ecco, Paul Theroux incontrò Salman Rushdie ai funerali di Bruce Chatwin. Erano passati un po' di giorni da quando l’ayatollah aveva pronunciato la famosa fatwa. E Paul Theroux disse: il prossimo funerale sarà il tuo se non ti guardi il sedere. Una frase veramente stupida.”
   “Bè, una frase tanto stupida non mi sembra.”
   “Che cosa?”
   “Era un consiglio amichevole.”
   “Assolutamente da imbecilli! Salman conosce il mondo musulmano molto bene, non ha bisogno di consigli. Questo è un altro motivo per cui non sopporto Paul Theroux”.

C’è da dire che Paul Theroux, che è americano, è scrittore anche lui di diari di viaggio, e se le premesse  sono queste a cui sembra alludere Neville, allora ci si dovrà aspettare un viaggiatore più sul modello statunitense, un tantino cioè ossessionato dal comfort personale - se in una stazione mettiamo del Tashkent ci siano dei gabinetti puliti, o se il bar offre dei sandwich presentabili invece che coloratissime bacche locali, che se non saranno proprio di calafate, ci si immagina comunque di un qualche altro arbusto di quei posti. E magari proprio una variante della berberis buxifolia: ad esempio la berberis buxifolia nana, che è molto più diffusa della prima, e i cui fiori sono gialli invece che arancione.

Profezia che arriva seconda


                                          Marinus van Reymerswaele - Il libro dei conti

Ho pensato ieri, aprendo il sito di un giornale e interrompendo per un po’ la preparazione del mio corso, e leggendo della gazzarra messa in scena dai franchi tiratori del PD alle votazioni per il nuovo Presidente, a come sia stato effettivamente profetico Nanni Moretti quando anni fa, salito infuriato sul famoso palco di Piazza Navona, sparò a zero sui dirigenti del centrosinistra che l'affollavano: con questa gente, disse più o meno, non andremo mai da nessuna parte! Su quel palco c’erano alcuni personaggi che nei giornali vengono ora indicati come i maggiori responsabili della gazzarra di ieri. E mi è rivenuta in mente anche una cena di quando ero ancora studente e avevo giusto vent’anni, qualche anno prima quindi dell’intervento di Moretti: una cena durante la quale osservavo intimidito e incuriosito, quasi afasico, i presenti: tutta gente di una certa età, piuttosto conosciuta. Per nascondere la mia timidezza mi concentravo sulla squisita pasta e fagioli fatta da questa artista romana a casa della quale eravamo. Ma le orecchie le tenevo aperte. E qualcuno a quella cena disse – si parlava sempre del centrosinistra: “questi sono professionisti della politica, tutto resta come prima”. Frase banale e non certo profetica. Era descrittiva, didascalica. La persona che lo disse non era un profeta: era stretto collaboratore di un ministro del centrosinistra. Profetici sono soltanto gli artisti .. e i matti ...   

giovedì 18 aprile 2013

Alle pendici dell’Aconcagua la guarigione dalla sofferenza





                                                      Aconcagua Mountain from base, Argentina
                                                                         by Winkyintheuk - Flickr 

Silo è un nome che a molti non direbbe niente, eppure lo si trova addirittura in una breve lista di psicologi e psicanalisti nell’agendina di Clarice Starling, nel film Il silenzio deglli innocenti, in una scena in cui Clarice parla a una collega del caso che sta seguendo. La pagina dell’agendina (parola che in italiano richiama Argentina, il paese dove Silo è nato) si vede per pochi secondi, e forse non si fa nemmeno in tempo a rendersi conto … Bisognerebbe mettere velocemente in pausa il DVD per leggere quel nome. C'è da immaginare, comunque, che tra le centinaia di milioni di persone che hanno visto il film pochissimi si saranno accorti di qualcosa, la maggior parte avrà notato appena i nomi di Freud e di Jung. Non so se l'inclusione di Silo in quella lista di Clarice Starling sia dovuta a una reminiscenza del regista, Jonathan Demme, o se il nome compaia già nel libro di Thomas Harris, che non ho mai terminato. 

Silo, per intenderci, è nientedimeno che l’iniziatore del Movimento Umanista. Le stesse origini di questo Movimento avrebbero a mio avviso, pure nei nomi, qualcosa di straordinariamente letterario: si tratta del famoso discorso che Silo tenne nel 1969, considerato un po’ l’atto di nascita del Movimento, una sorta di discorso della montagna: "La curaciòn del sufrimiento", pronunciato a Punta de Vacas, nelle Ande, alle pendici dell’Aconcagua, la seconda montagna più alta della terra – la giunta militare argentina alla fine lo autorizzò, ma a pattto che il tutto avvenisse lontano da centri abitati, dalle città. Ho letto pochissimo di Silo, devo confessarlo (Lettere ai miei amici e qualche altro testo), ma ho avuto la fortuna di osservare e conoscere molti di questi umanisti, di cui mi sento amico.

                                                Silo - foto Anita Szeicz

C’è in fondo, negli umanisti, un credo che non è mai né sopra né sotto le righe, e questo indubbiamente si avverte: un qualcosa di simile a una certa atmosfera che trovi alle origini (secondo le testimonianze) in tutti i più grandi movimenti ideologici: quei movimenti cioè che hanno provato a cambiare il mondo con un certo successo.  Pur conoscendo il Movimento dall’esterno, e necessariamente lasciando non detto, per ignoranza, ogni riferimento a ciò che è più strettamente teorico, già il semplice contatto con un umanista non mi ha mai passato quell'angoscioso, triste senso di pesantezza che senti ogni volta che qualcuno dice "noi siamo questo" "voi siete questo"; e avverto piuttosto un’aria di perenne freschezza - dico perenne nonostante la relativa giovinezza di questo già storicamente importante movimento ideologico. Forse in questo ci senti qualcosa di più vicino a certo spirito ilare di cui si parla nella Regola di San Benedetto. E anche gli umanisti a modo loro “pregano”, cioè si riuniscono, studiano e riflettono con tenacia, intelligenza e passione sui grandi temi che da sempre interessano l’uomo e la donna: il superamento della sofferenza, la possibilita di accedere al sacro. E in questi momenti di meditazione utilizzano tecniche di grande spesore teorico che (per quel poco che ho letto)  niente hanno da invidiare ai grandi sistemi tradizionali. Sono ormai, in tutti e cinque i continenti, più di venti i parchi umanisti dove si svolgono questi incontri. E la loro presenza nel mondo, la presenza del Nuovo Umanesimo, è tutt’altro che nascosta, velata. Silo stesso, cioè Mario Rodrìguez Cobos, riuscì a promuovere nel 2006 una campagna per il disarmo nucleare nel mondo, e fu uno dei rappresentanti, nel 2007, della giornata mondiale della nonviolenza.   

A frequentarli un po’, a prenderti un caffè con loro, senti che hanno una fede bella tosta, allegri o incazzati che siano: partecipano al mondo, lavorano, hanno figli, gioie, dolori, sono persone normalissime, ma in loro, nel loro quotidiano, si incarna concretamente un desiderio di cambiarlo, questo mondo. E hanno pazienza.

                                          foto di Anita Szeicz

Cerchi di capire quale sia questa fede, in cosa si distingua dal Cristianesimo o dal Marxismo, anche perché alcuni temi erano già lì, presenti nell’uno o nell’altro di quei movimenti: ripudiare la violenza in tutte le sue forme, affermazione dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, l’essere umano come valore e interesse centrale, il concetto di reciprocità, inteso quasi come precetto biblico del tratta l’altro come vuoi essere trattato, oppure il concetto di coerenza, nel senso di pensare, agire e sentire nella stessa direzione. E allora, quella differenza ti sembra di poterla andare a cercare solo in quel po’ che vieni a sapere di quanto hanno già fatto, fanno e continuano a fare. Quel poco che vieni a sapere, appunto, perché se perfino i grandi giornali in Italia hanno dedicato appena un trafiletto alla morte di Silo, che come si è visto passò pure l’esamino di Holliwood (oltre che della letteratura, dal momento che certi nomi e fatti a lui legati possiedono innegabilmente quella sorta di  solarità che soltanto la grande letteratura sempre possiede), non puoi certo aspettarti di più, non puoi immaginare che questi ragazzi e ragazze e uomini e donne di tutte le età ricevano anche solo una goccia dello spazio che ottiene il bello o la bella dell’Isola dei famosi o del Grande Fratello.

Eppure, anche a considerarli così, nell’ingenuità di uno sguardo esterirore, si rischia di dire sempre poco, di non avvicinarti mai abbastanza al cuore della questione. E se poi lo domandi a uno di loro: ma voi cosa volete ottenere, veramente? ti rispondono ancora più candidamente (e ti commuove il tono per nulla  presuntuoso): vogliamo umanizzare la terra, che è poi il titolo di una delle opere di Silo. E ti domandi a quel punto cosa significherà umanizzare la terra, con quali gesti azioni pensieri.  E allora qui c’è poco da fare o dire: per poco che li hai conosciuti, senti che questi gesti e azioni e pensieri sono dei più semplici: non sono fatti per nulla di conferenze pubbliche, di chiamate a raccolta, di slogan robanti, di grandi manifesti. Non ci sono le penne di pavone di ciò che non si farà. Sarà tra le altre cose anche per questo che attirano e suscitano simpatia in quei quartieri dove operano, con un profondo radicamento nel territorio. Alcuni temi di cui si fanno forti oggi i grillini erano già degli umanisti una ventina di anni fa, e già allora portati avanti con meno fumosità e con più concretezza nel loro libro arancione (politiche incisive su banche, finanziamento pubblico dei partiti - non completamente abolito ma ridotto all'osso, la stessa cifra per ogni partito, grande o piccolo, e gestita direttamente dalla Stato con pagamenti fatti direttamente dallo Stato - eccetera). In questo senso la loro è vera politica, cioè politica concreta, anche perché non può esistere politica al di fuori del radicamento nel territorio: non c’è politica esclusivamente in streaming, fatta soltanto di click di un mouse, che sarebbe una politica senza responsabilità - e ci sarebbe tuttavia da dire, che se le penne di pavone o i cri cri dei nuovi grilli parlanti, di chi crede cioè di far politica senza nessun radicamento nel territorio, se queste penne sembrano belle e inconsistenti, non saranno però prive di una loro ironica utiltità: a definire magari per contrasto alcuni elementi di un più generale concetto di umanizzazione, considerata la fortuna che dopotutto hanno avuto quasi tutti gli animali e gli insetti nell'universo dei grandi moralisti, da Esopo in poi.

Ma intanto, in questo loro mettere mattone sopra mattone, raccolgono, gli umanisti, soldi per costruire una piccola scuola o un piccolo ospedale grande come un appartamento di 250 mq in Burkina Faso o in Togo, paesi la cui economia, il cambio della moneta, sono ancora oggi gestiti e imposti dalle banche francesi. E in quel "250 mq", la superficie di un semplice villino, in questa misura apparentemente minima, mi pare sia racchiuso il senso di ciò che significa per loro essere umanisti, umanizzare il mondo. Li vedi a Natale o a Pasqua coi loro banchetti a vedere panettoni e colombe nelle grandi città italiane. O in altri paesi a vendere qualcosa di simile. Si deprimono quando non raggiungono una certa cifra. E fanno anche loro come le formichine: mettono da parte ogni singolo centesimo per dedicarli poi tutti all'Africa, alla loro Africa: metterci anche e soprattutto di tasca propria. Perché dovrebbe essere in fondo questo il vero spirito di chi fa volontariato, che ben poco ha in comune con le ONG, perché se prendi due tremila euro al mese per farlo, non si capisce che razza o che tipo di volontario sei.

Di questi panettoni pare che una volta, a largo Goldoni a Roma, Brignano ne abbia comprati cinquanta tutti in una volta. Illuminato forse da un soriso di uno degli umanisti, o forse dal sentimento che gli dei alla fine potrebbero mostrarsi invidiosi, punirti della tua eccessiva fortuna, del tuo talento. Mentre una mezzora dopo, una ragazzina di vent’anni, scesa da una grossa macchina scura con autista se ne è andata tranquilla e spensierata per via Condotti, dove ci sono Gucci Fendi e compagnia bella. Una ragazza del movimento pare abbia in quel momento stretto i pugno e digrignato i denti.   

Ho detto tempo fa a un umanista: in fondo anche i radicali sarebbero un movimento non violento, transazionale. Mi ha risposto, in napoletano: i radicali hanno prodotto Capezzone … E forse ha ragione il Movimento Umanista …

martedì 16 aprile 2013

Elezioni on-line e il Cimitero dei grillini


                                         Cimitero degli Inglesi a Roma - foto di LuciusCommons


Dice Grillo che “Roma è il cimitero della democrazia”. Mi pare che abbia detto proprio così, superando in inventiva e brio perfino la famosa guida turistica del Time Out, che se in passato arrivò a maltrattare brutalmente Roma, a chiamarla senza mezzi termini città di vecchi e di giovani nati già vecchi, non si era però ancora spinta a tanto ... Non che la guida del Time Out pisciasse fuori del vaso, ma poi, vuoi perché Roma è sempre Roma, vuoi perché adesso, oltre all'Auditoriun di Renzo Piano, c'è pure il MAXII di Zaha Hadid, l'architetto anglo iracheno, e la Teca d Richard Meier, Time Out alla fine ha dovuto per forza far marcia indietro, e nella seconda recente edizione ha finito per parlare di Roma con molta meno acrimonia e perfidia.

A Roma in realtà ci sarebbero tre distinti cimiteri: il Verano, che è quello storico, monumentale, tipica città nella città; c'è Prima Porta, che è la vera città dei morti, e che un mio amico, guardandola una sera dal suo attico a Settebagni, osservando a distanza le palazzine coi loculi mentre eravamo a cena qualche anno prima che morisse, definì "un vero obbrobrio" - e almeno sono contento che non ci sia finito anche lui, che sia stato portato in un cimitero di paese, in un’antica tomba di famiglia - dovettero tra l’altro allungare il loculo per farci entrare la bara. Un po’ come ai tempi di Keats, che aveva una delle sue case a Londra, in Keats Drove, a Highgate, non mi ricordo se la sua casa natale. E entrando a visitare la camera da letto, mi ricordo ci trovai due simpatiche turiste leccesi, due professoresse, che sembravano impressionate dalle dimesnioni del letto, "sembra il letto di uno dei sette nani". Lo chiamarono pure "tisico", il povero Keats. E fecero, alla fine, anche commenti sulle sue "dubbie capacità amatorie". Siccome questa non l'avevo capita, mi informai e una delle due mi disse: "ah , italiano?" e tutti e tre scoppiammo a ridere.

C’è poi a Roma il piccolo grazioso “Cimitero degli inglesi”, dove appunto è sepolto Keats e dove ci sono anche le ceneri di Gramsci ... 

Riconosco di non aver capito il senso della metafora di Grillo. Sono duro di comprendonio. Non capisco in che modo la intenda. Se voglia dire che Roma è un cimitero nel senso di luogo, dove ci sono tutti i morti prodotti dalla democrazia; oppure se la intenda in senso soggettivo: dove si trovano cioè le spoglie della democrazia (in questo caso quindi anche le sue e dei suoi); oppure se voleva dire che a Roma è impossibile che la democrazia possa funzionare. Ma sì, forse vuoleva dire questo. Quello che è certo è che Roma, come mi diceva un amico neozelandese in un pub di Londra, è la città del compromesso, della politica per eccellenza. E dell’accettazione di tutto e tutti. Anzi è una città di tutti. Quindi non mi meraviglierei se un giorno, facendone i grillini richiesta, il consiglio comunale dovesse votare all'unanimità (come è tipico di questa generosa città) la concessione di un qualche lotto o appezzamento di terra, che loro stessi, i grillini, a quel punto immagino vorranno chiamare Albergo a cinque stelle: cimitero dei grilli e delle cavallette. In fondo se Roma ha dato un cimitero agli inglesi non vedo perché non debba darne uno anche a chi si definisce, nel proprio statuto, italiano. E in effetti il cri cri dei grilli c'era anche in una famosa canzone romana. E visto poi che il comune di Roma in questi giorni sta implementando il servizio Wi-Fi sugli autobus, sui tram e sui treni della metro, prima o poi finirà per autorizzarlo pure nei cimiteri. Perché sembra impossibile immaginare un cimitero dei grillini dove le tombe siano sprovviste di notebook per gli amici e familiari che vanno a far visita agli estinti, che si vedano negati il diritto di far eleggere on line i loro rappresentanti dell’oltretomba. 

I lucchetti dell’amore e gli obblighi del romanziere


                                              Uffizi - Piero della Francesca, I duchi di Urbino

Il nodo è uno di quei concetti più facilmente comprensibili, eppure è uno di quelli più legati alla possibilità di un’aporia, di un imbarazzo, dell'inestricabile, dell’indissolubile. Un nodo, in effetti, potrebbe veramente non potersi sciogliere più. In questi casi si usa forse ancora oggi uno dei metodi di cui si sarebbe servito Alessandro, quando si trovò davanti al più famoso nodo dell’antichità, il nodo di Gordio. Ci sono due versioni di come sarebbe riuscito a venirne a capo. Secondo la prima, un impaziente Alessandro avrebbe usato la spada e l’avrebbe semplicemente fatto a pezzi, secondo la seconda, quella di Aristobulo – entrambe riportate da Arriano e altri – si sarebbe limitato a smontare il giogo dal carro conservando intatto il nodo: togliendo il chiodo che teneva fisso il timone dell’aratro e lasciando quindi il problema insoluto.

Del nodo di Gordio si diceva che non si vedevano i due capi (oute telos oute arche ephaineto, dice il greco di Arriano: letteralmente non appariva né la fine né il principio), che è come dire che non si capiva neppure se era un nodo. Ma al di là di scherzi e congetture, il nodo resta quello che è: un simbolo di unione, anche e soprattutto amorosa; e più recentemente è stato scalzato, da questa sua millenaria funzione, dagli orribili lucchetti di un altrettanto orribile romanzo.

                                              nodo di Salomone

Questi lucchetti dell’amore, a chi ha avuto la sfortuna di vederli appesi a centinaia attorno ai lampioni di Ponte Milvio a Roma, è difficile che non ricordino delle disgustose escrescenze della pelle. È piuttosto curioso che proprio a queste ferrose escrescenze da film horror sia stata affidata la rappresentazione di uno dei sentimenti più impalpabili, incomprensibili, dolorosi e meravigliosi nello stesso tempo. È vero che il grande Stendhal parla dell'amore come di una forma di cristallizzazione, e che un po’ di brividi li fa venire anche lui: ma i suoi cristalli difficilmente farebbero pensare a una malattia, una corsa all’IDI a farti vedere da un bravo dermatologo: al massimo corri a venderti i brillanti di nonna, se non ti bastano i soldi per l’affitto. D’altra parte, il lucchetto richiama anche la cintura di castità, che è forse la ragione per cui è stato preso a simbolo dell'amore nel XXI secolo. In questa scelta del lucchetto l'autore si sarà sentito in un certo senso obbligato: voglio dire, con quei personaggi non proprio memorabili che ha messo in scena non è che avesse troppe alternative - a parte il fatto che quando il sindaco ha ordinato la rimozione di quei quintali di robaccia, per ragioni strutturali, di tenuta del ponte, pure lui ha fatto tuoni e fulmini, segno che magari un po’ troppo sul serio s'era preso. Che è un errore fatale per un romanziere: riveli che non sei capace di distinguere, di prendere le distanze tra te e le tue creature, e che anche quando scrivi, riversi la tua ideologia.

Continuo ogni tanto a pensare che un ottimo sostituto del lucchetto, nonostante l’arcaicità del termine, sia la gassa d’amante, anche se un ottimo scrittore, con la giusta ironia, ne farebbe un termine modernissimo, degno dell'epoca virtuale. Il famoso nodo marinaio, insomma: un po’ perché il termine sopravvive (in mare vanno in tantissimi), un po’ perché piace anche a me andare per mare, e un po’ perché descrive con una precisione veramente icastica il concetto a cui si riferisce. Questo nodo, infatti, è come l’abbraccio di due innamorati: più viene contrastato più tiene, ma basta veramente un niente per scioglierlo. Ma l’ideale, per chi volesse gettare la chiave del lucchetto nel fiume e restare legato per sempre alla sua dolce metà, sarebbe il nodo di Salomone, che un po’ ricorda il nodo di Gordio. A chi lo guarda finisce per togliere pure il respiro. 

lunedì 15 aprile 2013

Dei grilli il verso ...


                                          Bruegel - Il Paese della cuccagna


Scrivevo ieri in un commento a un post in un blog dedicato alla lettura e alla letteratura (Il naufragio: una metafora esistenziale) che uno dei primi poeti a offrire l'immagine di una “nave sanza nocchiere in gran tempesta”  è  Alceo, nel VII secolo dell’era pagana, in una delle sue odi: questo mare che infuria da tutte le parti e la nera nave con noi sopra trasportata senza guida e senza meta ... È appunto la metafora di uno Stato ormai in balia dell’incontrollabile. La grande letteratura, la poesia, non è altro che spirito profetico, di senso cioè della realtà: di dialogo col reale anticipandone o riflettendone le dinamiche sociali. Ma qui, questa immagine di Alceo (poi in Orazio, e in tanti scrittori cristiani, e poi in Dante) è diventata un possesso definitivo, un'acquisizione per sempre, come avrebbe detto Tucidide; ed è strano come si tenda sempre a dimenticare, e come l'umanità ci sbatta continuamente il grugno … Si preferiscono altre metafore meno inquietanti, più campestri, ma che nei grandi poeti hanno ugualmente una loro preoccupante ragione d'essere ... de' grilli il verso che perpetuo trema ...

domenica 14 aprile 2013

La fama, quel diavolo di Totti ...


                                          Enrico Crespi, In chiesa


Tempo fa sono andato all’Olimpico a vedere una partita della Roma, la mia squadra del cuore, per quello che questo oggi può significare: di sicuro lo era quando da piccolo, uno scalmanato lupetto, andavo coi miei compagni a fare tutto il casino possibile in Curva Sud. Per la prima volta, invece, fatto entrare da un amico fotografo, sono andato guardarmi la partita in Tribuna Monte Mario, la tribuna dei ricchi, dei vip, delle autorità, dei non paganti - anche questo uno spettacolo a suo modo interessante, ma che non potrà mai apparire di un qualche valore se non perché in realtà ci sarà sempre per contrasto l'altro: lo spettacolo per antonomasia, quello che si ha uscendo sulle gradinate della Tribuna Monte Mario e guardando subito a destra. Questo cambio di prospettiva, avvenuto dopo tanti anni, mi ha fatto cioè prendere atto di un fatto semplice e insospettato: di quanto molto più grandiosa, anche inquietante, appaia la mitica Curva Sud se vista dall'esterno. In uno stadio non particolarmente pieno, la Curva era quella sera letteralmente impacchettata, non c'era spazio nemmeno per respirare .

Un po’ prima della partita i giocatori dopo aver fatto il solito tretching hanno preso a lasciare il campo, per tornarsene qualche minuto negli spogliatoi prima della chiamata finale, passando praticamente a una ventina di metri dalla Curva. Non si percepiva niente, nessuna visibile alterazione negli spalti mentre abbandonavano tranquilli uno dietro l'altro il campo. Ma nello stesso momento in cui anche lui, Totti, che stava finendo un esercizio a centro campo, ha cominciato a correre verso i tifosi e verso l'uscita, che è da quella parte, la Curva è letteralmente esplosa.

Totti è già anziano, come giocatore, ma è ancora un mito per i suoi tifosi, ma come lo sarebbero Del Piero o Inzaghi per i loro. In questo, i più grandi calciatori, pur in epoca di sponsor e di immagine, continuano a sostenere quel patto che c’era nell’antichità tra il singolo e le grandi masse: sul semplice gesto di un grande oratore o di un grande atleta si scatenava il delirio. Pure non è la stessa cosa. La fama oggi è semplicemente costruita dal marketing: non precede più grandiosamente un qualsiasi personaggio, non lo annuncia: si limita a seguirlo ironicamente. Di lui si sa ormai troppo: se ne conosce l'aspetto, l'altezza, il colore degli occhi, i tatuaggi, se ne conoscono perfino i colori dei peletti del fondoschiena. Ben altra cosa dalla fama di una delle più grandi star della Storia, Leonardo da Vinci, che torna a Milano anziano e tra gli studenti seduti a copiare il Cenacolo si sparge improvvisamente la voce che il "maestro" stava entrando in quel momento nella sala: un crescendo d'orgasmo per ciò che nessuno conosceva, che nessuno aveva mai visto – chi sapeva, tra i poveri mortali, com’era fatto Leonardo?

Ma Leonardo forse era di pasta veramente divina se da vecchio, mentre sta per inginocchiarsi e ossequiare come tutti gli altri Francesco I gli viene impedito, lo stesso re si lancia inqueito, lo solleva lui stesso: “su su, padre mio”, e se lo tiene affettuosamente stretto. E stiamo parlando, ovviamente, del re di Francia, che è come dire Dio in terra, per quei tempi. La fama precedeva Leonardo, cioè  la notizia o la conoscenza diretta delle sue opere.

                                          Leonardo, autoritratto

Si racconta che un giorno a Milano, nel milleottocento e passa, entrò da Ricordi uno sconosciuto. Senza dire niente andò a sedersi a uno dei pianoforti in esposizione e cominciò a suonare un pezzo qualsiasi, velocissimo, un virtuosismo folle. Il vecchio Ricordi si avvicinò al commesso, rimase un po' a guardare lo sconosciuto poi disse: “costui se non è il diavolo è Liszt”. Era appunto il grande Liszt. La fama l’aveva  ancora una volta preceduto.  

                                                     A. J. Lorentz, Caricatuira di Liszt

Quando l’insulto era una tecnica




Ho citato in un precedente post (gay se fa comodo) Eschine e Demostene, che si fronteggiarono nel più famoso processo politico dell’antichità - il più famoso perché uno dei due oratori era Demostene. E ci sono rimaste, grazie al cielo, le due arringhe tenute in quell’occasione: quella di Eschine, che parlò per primo, e quella di Demostene, che si alzò e salì in tribuna a parlare subito dopo. Eschine cosparse il suo particolareggiato intervento politico di offese e parolacce. Demostene inizia a parlare tranquillamente, difendendo la sua politica estera: il tono pare sommesso anche se energico, icastico, come è tipico di Demostene, della sua lingua, del suo greco, dei suoi interventi fin dall'inizio: ma poi improvvisamente, a un terzo del discorso, inizia a infilare qui e là qualche parolina: comincia a chiamare (e ancora come se pensasse ad altro) comincia a chiamare Eschine “questo sicofante”, poi ancora dopo un certo intervallo “questo miserabile” ... nemmeno te ne accorgi, sembra quasi che non se lo stia “cagando”, che non lo stia "pisciando": ha parlato finora della sua politica vera, senza quasi mai menzionare l'avversario. Che però di sicuro temeva questo momento: il momento in cui Demostene gli fa capire che sta per puntare impietosamente su di lui i suoi riflettori, cioè la sua lingua. Non ti accorgi di quelle paroline (sicofante, miserabile) eppure te ne accorgi: lasciano già il segno, perché appaiono dal niente in quella sorta di mare calmo che il suo intervento era apparso fino a quel momento. Poi di nuovo, improvvisamente, dopo essersi rivolto ai giudici, dopo aver detto che non è sua abitudine ricorrere all’offesa nonostante ne sia stato il bersaglio, dice ancora qualcosa sottovoce, che sarà solo l’inizio di uno spaventoso crescendo di una tempesta verbale senza eguali, di cui alle migliaia di persone che non erano riuscite a entrare in tribunale e erano assiepate all’esterno dovette arrivare l'eco. “Ma tu”, dice Demostene, il tono ancora pacato, “scarto umano, e la tua famiglia, cosa c’entrate con la virtù? Con  quale diritto parli di cultura? dove e come hai meritato tale diritto? (traduco un po’ a mente sul ricordo che ho di questa orazione che ho letto spesso). Pur non avendo (si noti il tono relativamente tranquillo se confrontato col ritmo della "rabbiosa" offensiva personale che seguirà) nessuna difficoltà a trovare argomenti, mi sento in imbarazzo su cosa ricordare per primo. Il fatto forse che tuo padre, il signor Cagonis, con il giogo al collo e i ceppi ai piedi fosse schiavo nella casa di Elpia, quello che insegnava l'alfabeto? O che tua madre mentre in pieno giorno la dava in una sudicissima stamberga e nella stessa stanza allevava te, bambolotto e attore di terz’ordine?” Queste cose non potevano non andare a segno se il padre di Eschine -che non era uno schiavo ma s'era comunque impoverito - s’era effettivamente a insegnare, e anche se la madre, che non era una prostituta ma veniva da una famiglia di sacerdoti, era la moglie del padre di Eschine. Questo è ancora, come ho detto, soltanto l’inizio. Il seguito vedrà un Demostene ormai scatenato annientare con argomenti politici completamente il suo povero avversario.

Mi viene in mente una poesia di Monti, La prosopopea di Pericle. A un certo punto, il busto di Pericle dice, in mezzo agli altri pezzi archeologici di Villa Adriana:

... là sollevarsi d’Eschine
La testa ardita e balda
Che col rival Demostene
Alla tenzon si scalda

Ed è ovvio che accennando appena al rivale, dando l'impressione di voler dare più importanza a Eschine, Monti finisca per ottenere l'effetto contrario: puntare i riflettori su Demostene: "una belva", come Eschine stesso, secondo un certo racconto, l'avrebbe definito dopo la sconfitta. Una belva sempre in agguato.     

La volpe e Barbie

                                                 Vasilij Ivanovic Surikov, ritratto della figlia

Alla cittadina Lombardi, portavoce del Movimento 5 Stelle, è successo un fatto strano. “Ieri sera mi hanno rubato il portafoglio dalla borsa”, posta su Fb, “ho perso tutte le ricevute delle spese sostenute finora: siccome è mia intenzione trattenere dalle voci di rimborso (come deputata) solo quelle effettivamente sostenute e documentate e restituire il resto, cosa faccio? Aspetto vostri consigli”.

Cosa fai … è una parola … Immagino sia la prima volta che ti succede una cosa del genere. Io credo che la prima cosa che farebbe un cittadino che (a differenza di te) conosca un minimo la vita, e che possieda inoltre un tantino di nerbo e non stia lì a fare gnegné ogni volta che gli cade una goccia di latte per terra, è  andare a presentare denuncia di furto presso i carabinieri o la polizia. Una volta fatto, non ti resta che affidarti alla buona sorte.

Ecco, il fatto che il parlamento, che il potere della politica, che in Italia dovrebbe essere l’arte della volpe - ma della volpe vera  - siano stati dati in mano con queste ultime elezioni a chi fa invece finta di essere il contrario di quello che dovrebbe essere, che siano stati consegnati a persone che chiedono on line consigli pure sul tipo di preservativi o di assorbenti da comprare, io lo trovo un fatto commovente: ha le forme di una politica in diretta, come una soap. Mi commuove questo popolo, mi verrebbe voglia di trasformarmi in una di quelle bambole che sbattono le palpebre dopo aver visto il principe azzurro. Ma non è forse un caso che i sostenitori della Lombradi questa volta le abbiano risposto: “ma le sembrano domande da fare?” E credo i messaggi fossero da loro stessi, dai sostenitori, un tantino censurati.

sabato 13 aprile 2013

le risate di Kafka e il nuovo Castello


                                                        Magritte . Il castello dei Pirenei

Quante volte non ci siamo sentiti dire, da un perfetto sconosciuto alla fermata dell’autobus o aspettando alla posta o in treno o in aereo (dopo che nel giro di un quarto d'ora ci ha raccontato anche i particolari più struggenti della sua esistenza): “Ehh, e questo è niente! la mia vita sarebbe un romanzo se solo sapessi scrivere”.

Salvo che la propria vita non è mai veramente interessante: non lo sarebbe neanche quella dei più grandi romanzieri se non la inserissero tra le righe di ciò che dicono e fanno i loro personaggi, che stranamente restano impressi fin dall’inizio. Ma che oggi tutti si siano trasformati “di fatto” in romanzieri, questo è un altro discorso, ed è un po’ nell’ordine delle cose: non certo una grande sciagura, come vorrebbero invece far credere i nuovi castellani della carta stampata e virtuale, a meno che non si rigettino quelle stesse premesse tecnologiche su cui è costruito l'attuale Castello. Si è cominciato con i blog e i post giornalieri nei vari blog e forum: quella vertigine che a molti non sembrava vera: veder schizzare il proprio nome dal niente del privato al niente pubblico: passare da una bocca (affamata di niente) all’altra (ma c'era già stato in passato il democraticissimo elenco del telefono). La stessa vertigine che, credo, provasse in origine (“en archè” “bereshit”), chiunque vedeva all'improvviso il suo nome inserito nelle bacheche del comune, nelle pubblicazioni di matrimonio. Anche lì ho l’impressione che, in un mondo ugualmente disilluso, ci fosse ancora spazio per qualche brivido: che qualcuno - è il motivo per cui si fanno ancora queste pubblicazioni di matrimonio – se ne uscisse magari per scherzo magari per davvero e mandasse tutto all'aria: questo matrimonio non s’ha da fare, quest’uomo è già sposato (le donne non hanno il senso dell'avventura, e se ce l'hanno è un senso posticcio, imitativo). Gli anglosassoni sono già più diretti e più drammatici, sollecitano i vari sicofanti quando la cerimonia è già in corso: se qualcuno si oppone a questo matrimonio lo faccia ora o taccia per sempre!

Questo per dire che se da un lato internet ha scoperchiato il vaso di Pandora, dall’altro ha reso questo "tutto della notorietà" meno temibile, più facile, più fruibile, anche se il Castello resta lì, imprendibile, lo sappiamo bene.

Si scrive a Fazi o a un altro grande editore, si invia un file pdf col proprio romanzao, che il più delle volte, a onor del vero, è un orrore illeggibile, e naturalmente il Castello non spedisce alla locanda nessun dipendente in borghese con la faccia da attore, gli occhi sottili e le sopracciglia folte, a assicurarsi che l’intruso effettivamente sia un intruso. Semplicemente non risponde, quindi il Castello si è fatto, giustamente, anche più irraggiungibile rispetto ai tempi di Kafka. E sarebbe stato interessante leggere, nel lungo pezzo sul “morbo dello scrittore” di Mariarosa Mancuso, pubblicato sul Foglio, quanto successe anni fa a Londra, lo scherzo che giocò uno di questi tanti ignorati dalle case editrici, il quale mandò una copia dattiloscritta di Pride and Prejudice facendola passare per opera sua. Lo modernizzò solo tanticchia. E l’editore rispose con una gentilissima per niente ironica lettera (in realtà venne poi licenziato): “la ringraziamo, ma l’opera non rientra nei nostri piani editoriali”. D’altronde la Mancuso, che appartiene al Castello (anche se si affaccia ai merli), e che quindi non è un caso che non ricordi questa storia, cita poi stranamente tra i grandi romanzieri proprio Jane Austin. E su questo, che Jane Austen fosse una grande, e che in quanto grande ebbe non poche difficoltà in un mondo di mediocri e di castellani, siamo tutti d’accordo. O quasi.


scorregge profumate (lettera a Ferrara - Il foglio)


                                                    Leonardo, due teste


Gentile direttore,
il titolo dell’articolo di Piero Sansonetti, De senectute, sembrava far ben sperare i tanti poveri milioni di ultra settantenni di questo paese:  che avessero finalmente trovato una certo spazio proprio all'interno del Foglio, giornale dove normalmente si respira una salutare aria di sguardo obliquo. C’era già tutto, in quel titolo di Sansonetti: il richiamo a Cicerone, all’antichità, la saggezza dei vecchi, il fatto che gli antichi erano proprio grandi e rispettosi dell'età  ... Ma invece di quel pianto sul "come erano belli i tempi passati", di cui l’articolo gronda, ci saremmo aspettati, dall’ex direttore dell’Unità, un riconoscimento di ciò che al contrario è sempre stato e sempre così sarà: perché se Cicerone scrisse quel trattatello (che sarebbe poi un dialogo) in cui tesse in Catone l’elogio della vecchiaia, la ragione era che il mondo ai suoi giorni andava esattamente come ai nostri giorni: giovane era bello mentre tutto ciò che era vecchio era considerato per ciò che era: vecchio, puzzolente e turpe. Cicerone, d’altra parte, a 42 anni era già console, e nel 44, quando morì Cesare (e quando scrisse il de senectute), ne aveva 62, cioè 63 (anno del suo consolato) meno uno, mentre Catone nel dialogo immaginario ne aveva 83, cioè 63 più venti, che è l’età dei virgulti in fiore (anche se poi non si capisce perché le scorregge di un ventenne risultino ugualmente tanticchia pestilenziali).

A Guenon sarebbero piaciuti questi simbolici richiami ai numeri, tanto più che un certo riferimento a dei fiori appena sbocciati gli avrebbe fatto tornare in mente i Rosa-Croce (simbolo, la croce, a cui indulgono maggiormente gli anziani, e utilizzato nell’occidente cristiano anche sui coperchi delle bare), e ci avrebbe forse spiegato, Guenon, che la croce, associata alla rosa, ha in realtà, in certe raffigurazioni medievali, il suo esatto equivalente in una lancia (simbolo più giovanile), ad esempio nell’abbazia di Fontevrault, in Francia. Guenon queste cose doveva saperle per forza se iniziò prestissimo a studiare e a scrivere e continuò a scrivere fino a tardi, restando però da anziano il maestro che era stato da giovane: passando tra l’altro, nella sua lunga erudita esistenza, dal Cristianesimo all’Islam, per ragioni sue proprie che, come lei sa, niente hanno a che fare con la religione. Il fatto è che a distinguere così le generazioni, e soprattutto a citare a vanvera gli antichi, come fa Sansonetti, senza averli veramente bazzicati, si rischia di sbatterci il grugno.


   
                                          he- gassen - pittura giapponese sec. XIX

E se c’era un insegnamento da trarre, da un Cicerone che ormai vecchio si affretta a scrivere un libro sulle bellezze della vecchiaia, è che la vita gli stava appunto crollando addosso, come sta crollando addosso, vista l’età, a Sansonetti, che in quel suo pianto funebre per i bei tempi andati sembra ignorare ciò che più veramente conta dei racconti della Storia: che i novatori e i rivoluzionari di ogni tempo, vivono il tempo di una mosca, che si chiamino grillini o panterini o sessantottini o occupy wall street, e che perfino FB e Twitter, il massimo deli orgasmi quotidiani, saranno già domani superatissimi, e i tuittisti di oggi saranno considerati gli stessi matusalemme di oggi. Insomma, nessuno avrebbe mai potuto dire che “gallina vecchia fa buon brodo” se qualcuno prima di lui non avesse detto: “che nessuno tocchi il pollo”.
Cordialmente
Valerio Larena 

La volpe e l'attore




Ci s'innamora dell'interpretazione di un attore, ti guardi e riguardi il film anche una ventina volte, poi quando li senti aprire bocca in un'intervista ti cadono le braccia. Che era poi quello che accadde alla volpe della favola di Esopo. Una volpe entrò in casa di un attore e cercando tra i suoi vestiti trovò una testa (una maschera da teatro) bellissima. Tenendola tra le mani e guardandola disse: "meravigliosa, ma cervello niente".

venerdì 12 aprile 2013

gay se fa comodo


                                          Scena di banchetto - Tomba del tuffatore a Paestum

Una cosa è essere gay una cosa è parlare di omoerotismo. Non avrebbe comunque molto senso (sarebbe nel migliore dei casi un atto di autopersuasione e nel peggiore dei casi un tentativo di bassa manipolazione ideologica) il voler applicare al passato, secondo il solito procedimento dell'ante litteram, la ormai più che abusata e noiosa etichetta gay, che si torni indietro di cinquanta o duemila e cinquecento anni (se un termine è applicato ante litteram vuol dire che quel termine non esisteva e se non esisteva la parola non esisteva nemmeno il concetto). Un gay è per definizione chiunque si senta in qualche modo "liberato": è una persona che sbandiera politicamente questa sua avvenuta "liberazione" - grazie ad anni di lotte e battaglie tra l'altro non sue - e lo fa a differenza di chi non vuole sbandierare un bel niente per tutta una serie di ragioni che non sta né ai gay né ai vari movimenti lgbt giudicare (tra l'altro con teorie psicologiche e psicanalitiche di dubbio valore). Alessandro Magno era gay? (era sessualmente liberato?) La domanda è semplicemente ridicola, improponibile, per la semplice ragione che non avrebbe avuto nessuna logica, nessun senso, per gli interessati. Greci Macedoni o Romani ragionavano tanticchia diversamente. Bisognava che agli occhi del mondo venissero rispettati (questo sì) certi elementari codici sociali. Se socialmente eri anche di un solo gradino al di sopra del tuo partner e lasciavi intendere ai vicini che ti piaceva riceverlo invece che darlo allora perdevi anche quel po' di considerazione che credevi di avere; e inoltre dovevi guardarti dal non tradire il genere all'interno del quale la natura ti aveva messo (storia e natura si equivalevano). Se nascevi uomo e ti truccavi e ti vestivi da donna o ti depilavi o agitavi un po' troppo i lombi o gesticolavi più del necessario, scattava impietosa la beffa o il sarcasmo: termini coloritissimi che esistevano allora come ai giorni nostri (ciò che mancava era l'omofobia, le pratiche criminali connese con l'inseguimento (la persecución, in spagnolo) con l'individuazione del nemico sulla base della mondezza ideologica che all'inseguitore è stata colata nel cervello); e di questi termini offensivi se ne reperivano a iosa. Eschine sbeffeggiò, nel famoso processo per la corona, il suo antagonista di sempre, il gigante Demostene, per quella sua certa “mantellina bianca” con cui si era presentato in tribunale. Lo chiamò in tutti modi possibili e immaginabili. Quando toccò poi a Demostene a prendere la parola (si dice che la sua parola riusciva a produrre in un fascinoso crescendo l’equivalente linguistico di una paurosa tempesta) lo distrusse. Eschine fu costretto a andarsene in esilio a Rodi. E pare che dopo aver letto ai suoi studenti l’orazione pronunciata contro Demostene, e meravigliandosi un po' tutti che con quel capolavoro non l'avesse battuto, Eschine abbia detto: “perché nessuno di voi ha mai sentito quella belva parlare!”

                                            Fidia, Dioniso - Partenone

Ciò che non esisteva nell’antichità era appunto l’omofobia, e anche le battute di Eschine erano un puro strumento retorico: sconfiggere l’avversario mediante una tecnica di scuola. Bisognerà allora forse interrogarsi sul perché l'omofobia oggi o nei secoli passati e non duemila e cinquecento anni fa. Tutto qui.

Aggiungiamo che sono argomentazioni prive di ogni fondamento storico e filologico quelle svolte da tante persone cosiddette colte (anche da qualche professore universitario) infatuati del mondo antico e greco in particolare: che cioè anche prima che la morale cristiana si consolidasse una relazione sessuale tra due uomini, al di fuori del rapporto educativo ragazzo/uomo maturo, era eticamente condannabile. Il sesso, in tutte le sue forme, in tutte le salse e a tutte le età, si faceva nella Grecia più arcaica come a Roma diversi secoli dopo e anche fin dentro i primi secoli dell'era cristiana, e più di quanto non si faccia oggi. Di questo, del fatto che nonostante accelerazioni in senso più moralistico nella Roma imperiale, il sesso continuasse a cuocere all'interno di un calderone dove c'era di tutto, è un pallido riflesso un trattato greco sull’interpretazione dei sogni, attribuito a Artemidoro e scritto più di 400 anni dopo la morte di Alessandro. Ma si può facilmente dimostrare che ai tempi di Artemidoro le interpretazioni di certi sogni erotici che oggi farebbero arrossire poggiava su premesse morali (non moralistiche) non dissimili da quelle dei tempi di Alessandro.