lunedì 29 luglio 2013

“Fogna universitaria” e preterizione

Pavone bianco - foto di Nevit Dilmen - fonte Wikipedia


Un bell’esempio di ciò che in retorica si chiama preterizione (il far finta di non voler dire una cosa per poterla dire ugualmente o per riportarla ironicamente - come quando si sentono frasi del tipo: ‘e non parliamo dei soldi che s'è fregato’; per non dire del suo caratterino ecc.) si può trovare in Plutarco, nell’Eroticos, nel momento in cui Flaviano, uno degli interlocutori del dialogo, dice a Autobulo (il personaggio che dovrà riportare alcuni discorsi ascoltati a suo tempo sull’amore): “Tieni ora fuori dal tuo racconto” (traduco un po’ liberamente dal greco) “tutto ciò che contiene descrizioni di prati e di luoghi ombrosi tanto cari ai poeti, con i loro intrecci di edera e rami di tasso e tutte quelle altre cose simili con le quali costoro si sforzano di far propri – più illudendosi che ottenendo effettivamente qualcosa di bello – l’Ilisso di Platone e quel suo agnocasto e quel declivio dolcemente erboso”. È un riferimento al Fedro (il dialogo di Platone in cui si parla di retorica e di amore), anzi una precisa descrizione del luogo dove Socrate e Fedro vanno a sedersi, le parole usate sono le stesse che nel dialogo platonico: l’erba, il dolce declivio, l’agnocasto eccetera. Si potrebbe considerarlo una sorta di omaggio di Plutarco a Platone – un riconoscere la grandezza di un maestro che ha scritto sull’amore cinquecento anni prima; ma è anche nello stesso tempo uno strizzare l’occhio a chi dovrà o vorrà leggere, un volergli dire: ‘non ignoro certo che prima di me c’è stato Platone, caro lettore ipocrita, te che ti immagino pronto a rinfacciarlo, tu che sei simile a me .

Ricordo che anni fa un mio conoscente (oggi professore all'università) scriveva un articoletto da presentare a uno di questi concorsi italiani tutti di facciata e col nome del vincitore già deciso in anticipo (a patto ovviamente che il sempre nuovo predestinato non si dia la zappa sui piedi). E una sua amica (all’epoca già professore) disse, vedendolo controllare e ricontrollare ossessivamente le bozze, gli disse con quell'aria da perfetta madreterna – ero io stesso presente: ‘Stai molto attento!’ … Un semplice consiglio, "amichevole", che direbbe poco o niente ai non addetti ai lavori, a chi non vive d'università: una galassia, questa, che in passato l’architetto e urbanista Bruno Zevi, (lo stesso che lasciò l’insegnamento in forte polemica col marciume “fascistoide” di destra di centro e di sinistra che imperava e impera tuttora nel baronato), in un bellissimo e virulento articolo sull’architettura italiana intitolato Lineamenti di un’apologia del fascismo, chiamò apertamente “fogna universitaria”: una condanna in toto dell’accademia e della neoaccademia, compresi concorsi e concorsini barzelletta. Da allora, da quando Zevi scrisse quella cosa, sono passati più di trent’anni, e niente è cambiato se non in peggio, sicché almeno in questo il presente equivale al passato.

Ignorando tale realtà, chiunque è fuori dal mondo universitario, chiunque cioè produce o fa muovere qualcosa di veramente concreto e utile al genere umano - l’operaio come il commerciante, i quali immaginano chissà quale bontà e quale incontaminato regno della "cultura" (hagnos in greco significa casto ma con diverso accento e senza aspirazione anche l'agnocasto del Fedro) - avrebbe difficoltà a intendere quella sorta di mafioso ammonimento (più che amichevole consiglio) a chi si apprestava a partecipare a un concorso a ricercatore comunque truccato: “Stai attento!” Stai attento a cosa? Stai attento a non fare errori: indica i "nomi e i lavori giusti", fai capire che conosci quanto è già stato scritto (dai membri di commissione) cita sempre l’ultima edizione di un’opera, mostrati al passo con la ricerca – per quanto di vera ricerca nel mondo umanistico se ne faccia ben poca e si sfornano solo articoli su articoli zeppi di errori concettuali ripresi tali e quali da altri che hanno scritto sullo stesso argomento e che a loro volta hanno copiato da chi li ha preceduti (pure da grossi nomi), senza mai nessun controllo né intervento critico, articoli e libri utili solo a far carriera e a nutrire lo spasmodico e smodato amor proprio di chi li produce. In sostanza le idee contano poco: munisciti di un buon manualetto di metodologia del lavoro scientifico e una volta trovato chi ti appoggia il gioco è fatto.

Plutarco, che con la buona retorica oltre a divertirsi divertiva gli altri, era lui stesso, da buon intellettuale, intrappolato duemila anni fa in questo ridicolo meccanismo tartufesco: quello del rapporto col lettore ipocrita contemporaneo o a venire, cioè il lettore “colto”, quello che legge e ti critica soltanto perché hai osato non fare un riferimento intelligente a ciò che è stato detto prima di te, anche se ciò che ti ha preceduto è uno schifo illeggibile e risulterebbe uno schiaffo all’intelligenza perfino il semplice riportarlo con ironia; e si tratta di un lettore che dà comunque per scontata la tua ignoranza (un po’ come quella ragazza italiana che a Londra una sera mi corresse quando per gioco dissi “andiamo tutti alla Tate”, e dissi Tate all’italiana invece che all’inglese – ma valga per tutte quello che indirettamente rispose Proust a Gide, che diceva di aver trovato “errori” ortografici nel manoscritto del Du coté de chez Swann: “il livello della nostra cultura”, disse più o meno Proust, “non è tale da indurci a commettere consapevolmente errori del tipo di quelli che ci vengono attribuiti’). Solo che Plutarco, questi riferimenti al passato, alla sua cultura, li faceva appunto in modo più divertente, non senza un sorrisetto, prendendoti anche per i fondelli con questo meccanismo della preterizione. Mentre nelle università italiane (e non solo) di ironia non c'è traccia: e quando un professore ha tra le mani un articolo di un collega, di uno suo pari, la prima cosa che fa va subito all’indice, per vedere se c'è il suo nome, se un qualche suo lavoro è stato citato; come seconda cosa - invece di iniziare finalmente a leggere l’articolo - scorre velocemente le pagine per vedere se sono presenti le note e quante ce ne siano (cioè quelle stampelle senza le quali secondo gli universitari il testo da solo non può camminare, è cionco). E poi forse alla fine si decide a leggere. Così ancora un mio amico che si occupa di semiologia gregoriana anni fa presentò a un liturgista che dirigeva una rivista accademica, un articoletto su un frammento di pergamena usato come foglio di guardia di un libro antico – conteneva alcune righe di uno dei sermoni di Leone Magno. E il liturgista non aveva nemmeno iniziato a guardare l’articolo che subito eclama: ‘ehilà ehilà ehilà (alalà), dove sono le note?’ E quando questo mio amico me lo raccontò mi disse testuale: ‘mi ripresi l’articolo e me ne andai, perché ti assicuro mi fece pena’. E in questo caso, essendo quell’articoletto nient’altro che la pubblicazione di un testimone inedito con varianti interessanti rispetto al testo conosciuto, non so di che note quel liturgista parlasse. Al massimo serviva un piccolo apparato critico di confronto con le lezioni degli altri manoscritti o famiglie di manoscritti, cosa che nell’articoletto in effetti non mancava.  

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