sabato 3 agosto 2013

Specchio delle mie brame: capitalisno e farsa della battaglia di Farsalo


Gneo Pompeo Magno


L’esito della famosa non battaglia di Farsalo, nella quale Cesare sconfisse Pompeo nel giro di pochissime ore, sarebbe stato deciso, a voler seguire Plutarco, da una semplice e elementare accortezza tattica: un curioso riferimento, in pieno scontro armato, al
narcisismo umano: un richiamo all’estetica quale "scienza" dell'apparenza e dell'attrattiva. Avrebbe incitato, Cesare, la sua fanteria di ormai quasi tutti veterani, a tenere ben alte le punte dei giavellotti in modo da minacciare in questo modo soltanto il volto dei cavalieri nemici, per lo più ragazzini dell'aristocrazia che non avevano forse neppure ancora indossato, si fa per dire, la toga virile: vanitosi quindi non solo di nascita ma per natura, se vanitosi i ragazzi sono sempre stati in ogni tempo e luogo. Fu così che secondo Plutarco i giovanissimi cavalieri di Pompeo, al solo pensiero di ritrovarsi volgarmente sfregiati, si sarebbero dati a una precipitosa quanto incontrollata fuga: primo anello (ma il fondamentale) a saltare delle forze di Pompeo, tra l'altro superiori per numero.

Non riesco a capire quale fonte Plutarco segua in questo episodio della Vita di Cesare. Se il racconto corrisponde al vero, Cesare preferì sopprimerlo nei suoi diari, si guardò bene dal parlarne lui stesso; si tratterebbe infatti di un banalissimo e nemmeno troppo edificante stratagemma per un generale che lavora per consegnarsi alla Storia: un trucco il cui unico obbiettivo non sarebbe stato altro che quello di  far fuggire gli avversari per rispiarmarli; anche se in fondo, un atteggiamento in linea con quelli che in ogni epoca - a parte il coraggio - vengono indicati come i tratti più salienti del suo carattere: la bontà d'animo e uno smisurato bisogno di mostrarsi clementealla clemenza di Cesare, quando avrà ormai in mano lo Stato, verrà perfino innalzato ipocritamente un tempio: nessun accenno, allora come oggi, al fatto che in un qualsiasi individuo avido di gloria o vanagloria e assetato di potere e di conseguenza di sangue la clemenza, se arriva, arriva quando sono già state mietute milioni di vittime e quando il nemico non è più in grado di nuocere.

Lo stesso più posato e più virile Pompeo - l’altra faccia della moneta del feroce sistema capitalistico della Roma di quei tempi (di cui Cesare era soltanto il geniale e opportunista demagogo dei popolari, della plebe), un sistema cioè  capitalistico fondato su un capillare e impietoso sfruttamento della manodopera schiavistica tipico di quasi tutti i popoli dell’antichità - esce anche peggio dalla "non battaglia" di Farsalo, se gli storici dell'epoca parlano di una sua rocambolesca fuga dalla Tessaglia, dopo aver dimesso gli abiti da generale e averne indossati di più comuni; sicuramente con un occhio allo specchio da campo, così come Cesare di specchi doveva averne a iosa, forse un intero baule da portarsi ogni volta al seguito, se un altro degli aspetti del suo carattere su cui i contemporanei insistono richiama una certa sua irriducibile vanità – ad esempio il riporto di capelli fin sulla fronte a coprire una "penosa" calvizie (quella lingua biforcuta di Cicerone era anche lui disgustosamente vanitoso, ma lo era solo intellettualmente, il che sarebbe anche meno accettabile, sul piano morale: sopperiva alla mancanza di coraggio fisico e militare con la ricerca ossessiva della propria immagine dello statista, di un riconoscimento del suo “genio” politico, secondo la turgida ma vuota visione che aveva di sé). E verrebbe quasi da pensare che quando Cesare, nella non battaglia di Farsalo, disse ai suoi soldati: "mirate coi giavellotti agli occhi più che alle gambe", se pure si può immaginare una non discreta conoscenza dell’umano, è difficile credere che non avesse lui stesso in una qualche occasione rifletttuto su questo perpetuo dramma dello specchio: la paura di perdere anche lui i connotati, e che gli fosse capitato di rifletterci nel corso di una concreta battaglia, immaginandosi marchiato a vita dalla spada di un Gallo o di un Germano: una bella cicatrice in piena faccia da un orecchio all'altro. Ben più visibile di quelle di cui restavano marchiati ugualmente a vita i milioni e milioni di schiavi delle cave e delle miniere: di chi cioè da ogni parte dell'orbe conosciuto riforniva il famelico granaio di Roma e soprattutto riforniva di infinita ricchezza questi generali e altri ufficiali, sedicenti combattenti per la libertà del genere umano.

Gaio Cesare

Devo tuttavia riconoscere che tutte le volte che leggo degli ultimi istanti di vita di questo feroce genio militare, resto commosso: mi appare la solitudine e l'umano, di Cesare: che mi capiti di leggere il suo assassinio in Plutarco o in Svetonio, in Nicola Damasceno o Appiano o in Cassio Dione, non posso non riconoscere che non è un caso se Gaio Cesare è da sempre considerato uno degli uomini più imponenti della Storia. Mi ispira, in quegli istanti in cui cade difendendosi come un leone da un numero infinito di coltellate - o quando alla fine si copre con la toga per pudore le gambe - mi ispira soltanto rispetto e compassione e mi ispira invece disgusto chi (ipocritamente al servizio della libertà di pochi) si accanisce su un uomo in quel momento è completamente indifeso. Ma è un pensiero che scaccio sempre immediatamente, come una mia debolezza, e mi riappare invece subito la testa di uno dei figli di Pompeo, che quel cesariano, uomo da niente, riporta dalla Spagna al suo "padrone" ormai dittatore a vita, e ripenso a tutti gli altri morti che pesano sulla coscienza di Gaio Cesare e di cui Dante Alighieri, per opportunismo politico, si dimenticò completamente quando ne fece un paladino della sua forma di governo perfetto. Sul destino tuttavia di quel crotalo di Bruto nelle fauci di Satana, su questo nessuno avrebbe da ridire.

La sua gigantesca figura storica, di Cesare, mi appare invece senza contrasti - di questa immagine non so effettivamente liberarmi - nella descrizione che fa Plutarco - e anche Appiano (è la più drammatica delle versioni conosciute) - del famoso episodio del lancio dei dadi. Anche qui Plutarco e Appiano (ho l'impressione, almeno da alcune considerazioni interne, che abbiano entrambi come fonte Asinio Pollione, l'amico che accompagnava Cesare quel giorno e in quelle ore e la cui opera storica - a parte un più lungo frammento citato da Seneca il vecchio nelle sue Suasoriae - è andata completamente perduta) dopo aver descritto un Gaio Cesare incerto e titubante nei pressi del Rubicone, mentre pensa e ripensa a lungo ai pro e ai contro di un gettarsi contro i suoi stessi concittadini e contro la sua patria, e quindi al giudizio che la Storia porterà sul suo gesto, e dopo tutte le discussioni che ha con amici e luogotenenti, improvvisamente lo si sente dire non in latino ma in greco quelle famose parole: "anerrìftho kìvos" si getti il dado, cioè mi rimetto alla sorte, e in quello stesso preciso momento parte al galoppo seguito dalle sue legioni in direzione del Rubicone e di Rimini e poi di Roma, contro Pompeo, ormai suo nemico mortale. E mi è sempre parso un galoppo che più che verso Roma punta diritto verso l'immagine dell’eternità. Se anche questa immagine non fosse un'illusione e un trucco della propaganda capitalistica e di regime di quei tempi.   

Nessun commento:

Posta un commento