giovedì 11 luglio 2013

Abelardo, Eloisa, il lavoro manuale e il giornalista



Ricordo che il mio professore di storia della filosofia medievale mi raccontava che da giovane studente a Parigi alla Sorbona, subito dopo la guerra, andò un giorno a cercare la tomba di Abelardo e Eloisa al Père Lachaise e la trovò praticamente
distrutta. Andò quindi a comprare del gesso e munito di cazzuola cercò di rimetterla in sesto. Questo mio professore è stato uno dei massimi studiosi della Scolastica, filologo e editore di testi. Lo rivedo ancora nel suo studio, dove andavo a trovarlo quando con lui avevo già dato l'esame, e lo trovavo immancabilmente seduto alla scrivania a collazionare manoscritti. Il suo ultimo lavoro, un volumone delle opere di uno degli autori della Scolastica, lo occupò per vent'anni. Passavamo un paio d'ore a chiacchierare (io per lo più intimidito dalla sua modestia), quando ancora studiavo e nello stesso tempo facevo qualche lavoretto manuale per pagarmi l'università e l'affitto, tipo scaricare la notte cassette ai mercati generali. E il mio professore mi dava dritte sui miei primi articoletti filologici, chiedeva ogni tanto, con commovente umiltà, a me che ero un semplice studente, un giudizio su una certa variante di un manoscritto, e diventò inevitabilmente uno dei miei due maestri di critica del testo, quel lavoro che consiste nello studiare i manoscritti o le citazioni rimaste di un'opera per tentare di ricostruire il ricostruibile.



Fare l'asame con lui era anche questo un'esperienza unica. Arrivavi e ti sedevi. Lui nel frattempo aveva già messo sul tavolo una trentina di piccole schede, tipo carte da gioco disposte a formare il quadro di uno strano solitario. Sul lato coperto di ognuna di queste schede c'era una domanda. Ti chiedeva di sceglierne una. Tu la voltavi, leggevi l'argomento e inziavi così l'esame, che si trasformava di lì a poco in un meraviglioso dialogo e finivi per toccare ogni aspetto del corso. Alla fine dell'esame orale, senza aprire bocca, prendeva una matita e con questa indicava in una colonna di numeri il voto che intendeva darti. Presi l'equivalente di ventotto ma fu il mio voto più meritato e più bello, quello più vero, molto più importante dei trenta che presi negli altri esami.



Oggi ho ripensato a lui: grande pedagogo e sommo intellettuale, di un'intelligenza più incisiva della lama di un bisturi: una di quelle schive e laboriose formichine celate al grosso pubblico, secondo la definizione dei filologi data da Benedetto Croce. E ci ho ripensato perché trovandomi a casa di un amico che mi aveva chiesto di annaffiargli le piante ho acceso come uno stupido la televisione e mi è apparso subito quel giornalista che ha inventato quel sistema di mitragliare le notizie, e mi stavano già arrivando i primi conati di vomito al pensiero dell'assoluta inutilità della vita di questi personaggi: macchinette parlanti incapaci di darti perfino la più insignificante delle emozioni, quel minimo di sentimento della vita che può regalarti invece un operaio che incontri a una fontanella e col quale fai due battute sul caldo asfissiante. Insomma senti che il vero problema, quando pensi a queste persone, è che non hanno mai veramente fatto un lavoro manuale, né da ragazzi né da adulti: sono passati tranquillamente dal liceo all'università e di qui, mediante conoscenze, entrati felicemente in un giornale o in una televisione, a scaldare le varie sedie e sgabelli, e senti quindi che della vita reale sanno ben poco, perché non ne hanno sperimentato le durezze, le vere asprezze, pur avendo la presunzione di voler parlare di tutto: del mondo, di politica, dei problemi e delle sofferenze umane, del carcere, dei licenziamenti, della perdita di un figlio ucciso da un pirata della strada o vittima della malasanità. E danno queste notizie come dessero le previsioni del tempo, cospargendole ogni tanto di quel tono di falsa partecipazione da veri tartufi incalliti, e senza però possedere le stesse virtù comiche del personaggio di Molière. E così, quasi inaspettatamente, per non farmi risalire in bocca i biscotti che m'ero mangiato mentre annaffiavo le piante, mi è venuto in aiuto, senz'altro dal Paradiso dove ora si trova, il mio generoso e buon professore: quell'immagine di lui che si rimboccava le maniche della camicia a diciannove anni a Parigi e che già allora, oltre a essere in grado di leggere la difficilissima e anzi impossibile scrittura di san Tommaso sapeva fare anche il muratore al Père Lachaise, lui che era un aristocratico nel vero senso della parola, nato e cresciuto in una grande villa patrizia.    

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