giovedì 23 ottobre 2014

vecchiaia potere e sesso in Plutarco

Antonio Bellucci, Rinaldo e Armida

Venendo nel corso della sua opera a considerare la questione se l’uomo politico debba a un certo punto, con l’età, sottrarsi all’attività pubblica, se cioè la vecchiaia possa considerarsi un impedimento di natura all’esercizio dell’azione politica - per il fatto che l'uomo si dedicherebbe con più gusto ad altri piaceri (in primo luogo eros) - Plutarco, che affronta il problema da vecchio, lo esclude. E non solo perché è la vecchiaia a essere semmai di ostacolo a determinati piaceri. La ragione più vera è che l’uomo politico non può mai credere di poter venir meno al suo dovere etico.

Nel suo An seni respublica gerenda sit (se il vecchio debba occuparsi attivamente di politica) si serve, a esemplificazione del suo assunto, di due metafore politiche sicuramente topiche, insistenti, nell’antichità: quella dei marinai e quella di Eracle alla reggia di Onfale. La prima delle due immagini viene normalmente fraintesa: anzi non c'è mi pare traduttore che l’abbia resa correttamente. Il vecchio politico che lascia la vita politica per darsi unicamente ai sensi viene paragonato, da questi traduttori, a quei marinai che lasciano la nave prima ancora di giungere in porto. Basterebbe in realtà il semplice buon senso e un pizzico di intelligenza a indicare qui la giusta strada. Come potrebbero dei marinai abbandonare la nave prima ancora che la nave sia arrivata in porto? con delle scialuppe sulle quali concedersi ai letali riti di Afrodite, con l’aiuto magari di questa o quest’altra sirena accondiscendente? (e le sirene di Ulisse dopotutto potrebbero essere a loro volta nient’altro che una metafora proprio di questo, del sesso nudo e crudo, se l'isola nella quale albergano presuppone comunque il miraggio di un qualche porto, soprattutto trovandosi nei pressi di Scilla e Cariddi).

Dice in realtà e molto semplicemente Plutarco:

οκ οδα ποτέρ δυεν εκόνων ασχρν πρέπειν δόξει μλλον βίος ατο· πότερον
φροδίσια ναύταις γουσι πάντα τν λοιπν δη χρόνον οκ ν λιμένι τν ναν χουσιν λλ' τι πλέουσαν πολείπουσιν (785e)

... non so quale di due vergognose immagini si addica di più alla vita di un uomo simile: se quella di quei marinai che ancora in navigazione trascurano la nave invece di portarla al sicuro in porto e si dedicano per tutto il tempo  agli amori  ...”    

Quindi trascurano (πολείπουσιν), non abbandonano la nave, come viene sempre tradotto – e semmai abbandonano la nave a sé.

Il testo di Plutarco lascia giustamente pochissimo spazio a un tipo di immaginazione onirica (alla base di tanti film horror e di tanta narrativa da quattro soldi) a cui è abituato il lettore e spettatore moderno. Non è possibile osservare una nave che naviga con tutti i suoi marinai a bordo e un attimo dopo trovarla vuota. Dove sarebbero andati a finire tutti quanti? E se pure Plutarco avesse avuto un qualche interesse a distinguere le specie di eros, non avrebbe potuto farlo (φροδίσια), e anche a voler sviluppare ulteriormente una metafora che giustamente è stata appena accennata (la fortunata metafora della nave senza nocchiere) quegli amori sensuali sarebbero al massimo quelli nei quali il marinaio indulge a bordo, senza lasciare la nave: e c’è da immaginarsi prima di tutto con chi e a spese di quale parte del corpo; a meno che non si vogliano ipotizzare sulle navi antiche, triremi o da carico, bordelli con tanto di anziana maitresse, e donne imbarcate al solo scopo di rifocillare la ciurma, così come si imbarcano i viveri e tutto il necessario per la sopravvivenza in mare. D’altronde, se anche qui non c’è in Plutarco evidente ossessione classificatoria – amore omosessuale o eterosessuale – difficilmente una simile metafora risulterebbe incisiva senza una “concreta” esperienza visivo-immaginativa del lettore, lo scrittore che gli fa immaginare la scena, i bagordi, le bevute e la nave abbandonata a se stessa. Che è poi espediente narrativo - l’omissione - tipico di tutti i grandi autori che hanno superato la prova del tempo.

Ciò che invece qui conta è il fatto che questa immagine dell’abbandono del dovere tocchi e sfidi il concetto stesso di virilità al di fuori di un qualsiasi riferimento alla natura dell’amore e in direzione unicamente di un indebolimento dell’animo umano, del carattere maschile (l’amore omosessuale, o meglio l’amore per i ragazzi, non a caso non si trova mai opposto in Plutarco, in nessuna delle sue opere, a quello eterosessuale ma soltanto all’amore coniugale, e quindi al dovere - vedi il De amore e quanto ho scritto su questo; l’abbandono del proprio dovere viene qui identificato semplicemente con ciò che è vergognoso - ἐσχρόν - e tale immagine risulta ulteriormente ampliata e definita dall’altra che segue immediatamente, quella di un Eracle effeminato alla corte di Onfale:

καθάπερ νιοι τν ρακλέα παίζοντες οκ ε γράφουσιν ν μφάλης κροκωτοφόρον νδιδόντα Λυδας θεραπαινίσι ιπίζειν κα παραπλέκειν αυτόν.

“... oppure come ironizzano alcuni con Eracle, quando lo raffigurano nelle loro pitture poco presentabile, impaludato in lussuose vesti gialle e dedito e sottomesso a delle schiave lidie mentre si fa sventagliare e acconciare i capelli” (poco presentabile: traduco così, come il contesto richiede, οκ ε, riferito ovviamente a Eracle, non ai pittori - nelle Vite, nel Parallelo tra Demetrio e Marco Antonio, così come nel Teseo, non c’è nessuna condanna di questi pittori, come vuol far credere per esempio M. Cuvigny nella sua edizione del An Seni).

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