Credo che l’Italia – e i fatti mi danno comunque
ragione – debba essere chiamata non Italia ma Peracottalandia: basterebbe soltanto osservare come un ministro dell’Interno
si vada improvvisamente a impelagare, in un
paese economicamente allo sfascio e allo sbando, nella questione secondaria dei matrimoni tra persone dello stesso
sesso. E nemmeno col livore che uno si aspetterebbe da tale genia di
ciceroniani incolti dell’ultima ora. Naturalmente dietro questo ministro che
crede di saper parlare italiano solo perché non commette (ma apparentemente) errori
grammaticali o sintattici, c’è il blocco monolitico della chiesa cattolica; nessuno d’altronde crede alla
buonafede dell’attuale papa, le sue chiacchiere di tolleranza sono appunto
chiacchiere, sputate nel momento più basso della credibilità di una confessione
religiosa che più che cristiana dovrebbe a rigore chiamarsi paolino-giovannea,
cioè bassa teologia allo stato puro (come fa una religione delle masse a presentarsi e ad avere la presunzione di essere compresa con un vangelo come quello di Giovanni: "in principio era il verbo"? o con tutti quegli astrattismi e intellettualismi filosofeggianti di san Paolo? E comunque la tolleranza non la si pratica né la si sbandiera: nel momento in cui ci si definisce tolleranti vuol dire che si è esattamente il contrario.
E capitale di Peracottalandia è Peracottalandia al
quadrato, cioè Roma, dove ho avuto la disgrazia di nascere e crescere, e che ancora
nel 2014 non si vergogna di avere soltanto due linee di metropolitana su una
popolazione di cinque milioni di abitanti.
Cioè la quintessenza giustamente di Peracottalandia, la peracottalandietà – non a caso dopo
il 1945 sono approdati in questa città di conformisti, che è ancora oggi una concrezione di
burocratico pus fascista, centinaia di
migliaia di italiani da ogni altra parte d'Italia. Quindi come dovrebbe chiamarsi la
capitale di Peracottalandia?
Sulla questione del pupazzo nella storia italiana ho
già detto nel post precedente.
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