giovedì 20 giugno 2013

Fiction, Africa, guerriglia, medici nazisti e emissari neri della mafia

                                                   Cascate Vittoria e ponte sullo Zambesi  



Ripubblico qui in italiano un mio pezzo inglese uscito a Londra alla fine del 2001 e ormai introvabile in originale. L'ho semplicemente ripreso e tradotto.





                                                                                      alla memoria di Miriam Basner


C’è un capitolo della storia dei movimenti anticolonialisti africani che a un certo punto, per quanto mi riguarda, si intreccia con un capitolo della topografia londinese: precisamente col Cinema Rio di Dalston, zona a nord est di Londra,
oggi con una prevalente e giovane popolazione giamaicana alla quale bisogna aggiungere una non trascurabile minoranza musulmana, con tanto di moschea con affaccio sull’ampio spiazzo del mercato e il minareto che sembra sovrastare ogni cosa.
  Dalston fa parte del municipio di Hackney, ma potrebbe ricordare una città dell'estremo oriente: con molto rosso nelle insegne, con tanta gente per le strade, tanto movimento, odori: non solo kebab turchi ma anche takeaway indiani, cinesi, vietnamiti, coreani.  
  Nel centro di Dalston si trova questo repertory cinema, un piccolo cinema d'essai dove danno sempre film più o meno recenti e dove per un paio d'ore ti dimentichi che esiste tutto il restoÈ quell'atmosfera di reale sicurezza e benessere tipica di tutti i cinema non ancora dotati di telecamere spia, luoghi sottratti a quel curioso meccanismo voyeuristico che non sa ancora pronunciare il suo nome, libertà unica di tutte quelle piccole sale ancora per poco franche, vere e proprie ambasciate, luoghi civilizzatissimi, si fa per dire. Ma nel caso di Dalston, il fenomeno risulta anche più irriducibile. Le sicure pareti di questa sala paiono estendersi ai confini amministrativi del distretto, riappropriarsene, tanto che in questa zona, cinema o non cinema, si finisce per sentirsi “protetti” ovunque, per poco che ci si senta occidentali "non patentati", che ci si senta, almeno simbolicamente, neri, arabi, indiani, mongoli, tibetani, afghani, uzbekistani: tutto meno che incontaminata purezza bianca o rosa che sia.
   Ma parlo del cinema di Dalston perché tra le varie felici epifanie di questo quartiere di Londra,  proprio qui, in questo suo splendido cinema d'essai, ho sentito per la prima volta nominare, un po' prima dell'inizio del film, da una persona che si era seduta nella fila dietro, le cosiddette post-Sharpeville Emergency Regulations: un pacchetto di misure repressive varate dal governo di Pretoria nei primi anni Sessanta, all'indomani dell'eccidio di una settantina di neri sudafricani che per protesta contro le feroci politiche dell'apartheid bruciarono le loro carte d'identità davanti a una stazione di polizia.
   
  Il Sudafrica, come anche la vecchia Rhodesia, e il Ghana: paesi di un complicatissimo continente dove le cose cambiano in modo paradossale più velocemente che in qualsiasi altra parte del mondo. L’Africa: il paese degli acronimi, delle sigle, alle quali non si riesce mai a stare dietro per la velocità con cui vengono coniate: l'ANC, cioè l' African National Congress di Mandela, il PAC, il Pan-African Congress, e tante altre sigle, anche in quella che era un tempo la Rhodesia, oggi Zimbabwe: lo ZIPRA dei ribelli di Joshua, lo ZNLA, lo ZANU di Mugabe, che oggi fa lisciare dai suoi veterani di guerra i proprietari bianchi che non vogliono lasciare il paese e che tanto per cambiare se la prende anche con la "gay philosophy" del primo ministro britannico.
  Di esseri socialmente agguerriti  - paladini e paladine dei diritti civili - soprattutto socialisti e socialiste - la Gran Bretagna è stata ed è piena.  Ogni giorno ne muoiono un discreto numero: uomini e donne di ogni età.  I vari quotidiani si “divertono” a scriverne i necrologi, corredati di una foto formato tessera del morto e due righe in fondo alla biografia con dati più strettamente anagrafici (eventuale coniuge, figli eccetera).
  Non so se qualche lettore raccolga e conservi questi obituaries  - forse qualcuno, come me, li catalogherà addirittura secondo le varie zone del mondo in cui questi uomini e donne hanno agito, hanno operato: Gran Bretagna, Asia, Indie Occidentali, Africa, Australia, Nuova Zelanda ...
   C’è per esempio il necrologio di Hyman Basner, o semplicemente Bas: un nome che suona immediatamente drammatico, d’azione.
  Per saperne di più del dramma di Basner e per cercare di dare un senso a una questione che da sempre in qualche modo mi ossessiona, sono andato a cercare Miriam Basner, sua moglie: una vecchia sudafricana che è una specie di bibbia di quei rivoluzionari bianchi che si sono mossi in Africa tra gli anni Cinquanta e Settanta.
  
"Se quel personaggio di cui mi chiedi era un avvocato", mi dice Miriam dopo i primi convenevoli, "allora non poteva non essere conosciuto: sarebbe stato naturalmente coinvolto in attività di sostegno legale alla popolazione di colore."
  "So che nel ‘61", le spiego continuando a fissarla emozionato, perfino sopraffatto da un elementare sentimento della Storia che sanno suscitarmi soltanto i veri rivoluzionari, "aveva ottenuto, solo perché di origine britannica, un passaporto temporaneo dal governo sudafricano.  E questo in un momento in cui - come mi pare di aver capito - dopo l'eccidio di Sharpeville lasciare il paese attraverso il Protettorato britannico del Bechuanaland era piuttosto difficile."
   Miriam mi ascolta, mi offre una sigaretta.  Le offro una delle mie.
 "Per alcuni", replica tranquilla - mi studia e pare non fidarsi, mi troverà eccessivamente cortese - "come per mio marito Bas, riuscire a lasciare il paese avrebbe significato una più vera libertà all'estero."
 "E perciò", dico, "lasciare il Sudafrica era diventato veramente impossibile?"
   Lei annuisce.
   Mi limito a guardarla. E’ una donna che ha visto.
   E così, per liberarmi delle incipienti lusinghe del meraviglioso, che potrebbero avere in me effetti devastanti, anzi per adattarmici a poco a poco, mi guardo attorno e mi accorgo che sono già in una specie di trappola cronologica: vecchie carte geografice alle pareti, dorsi di monografie sui vari paesi africani, alcuni dei quali hanno cambiato nome; e poi gli oggetti, cioè i suoi pochi memorabilia.
   Sul tavolino, davanti a noi, c’è qualcosa, coperto con dei tea-clothes.
  Magrissima, Miriam solleva uno di questi tovaglioli lasciando scoperto un piatto di chicken thighs, che si è fatta mandare apposta per me dal takeaway sotto casa, in questo villaggio del Galles dove ci troviamo.
  "Mangia!", mi fa senza particolari cerimonie, forse perché figlia di milionari sudafricani, anche se adesso dipende in tutto dai sussidi del walfare.
   "Sei generosa", dico mentre penso che invece la generosità potrebbe essere sempre e nient’altro che calcolo ...  Ma invece mi diverto subito, come è anche giusto che sia, se si pensa che la vita è sempre e soltanto un avanspettacolo, piccolo o grande che sia: la realtà ti sta sempre davanti, salvo forse nei casi - più frequenti di quanto non si pensi - in cui te lo mettono nel culo.
  Nel nostro caso poi è un avanspettacolo eccezionale: col padre di Miriam stokebroker di origine russa e paziente di Jung, che passa lunghi periodi in Europa per curarsi da una depressione cronica. E nessuno si salva: la figlia, già a dieci anni, deve imparare l'alfabeto cirillico in modo da potergli leggere L'ispettore generale di Gogol nell’originale, che è l'unico libro che lo distrae in quei momenti di sole nero. E ancora, allo stesso modo di quelle figurine delle vecchie pubblicità, che al posto dei piedi hanno una rotella e camminano semplicemente scivolando, ecco entrare – per dileguarsi immediatamente - due straordinari personaggi le cui originarie aspirazioni vennero nutrite nella languida regione sudafricana del Natal: il primo, Shaka, re degli Zulù, il secondo, Mohandas Karamchand Gandhi, il Mahatma, amico del padre di Miriam, e che lei ha incontrato da bambina nel 1931 - l'anno dei proclamati fasts-unto-death, dei "digiuni fino alla morte" - nella casa del figlio di Gandhi, Manilal, che viveva nell'insediamento di Phoenix, fondato dal padre tra i campi di canne da zucchero non lontano da Durban. E poi, quasi naturalmente, l’avanspettacolo-operetta miriana introduce, con una serie di danze per niente allegre, stupri, violenze fisiche e psicologiche: le entrate per i neri e le entrate per i bianchi: vendette, fughe, granate, mitragliatrici, labirinti politici dei quali bisogna trovare velocemente l’uscita e ricominciare sempre da capo, come in uno di quei giochini Nintendo.
  E appunto chissà come sarebbe diventata più redditizia l'esistenza di Miriam se invece del patatrac consueto a tutti i veri grandi rivoluzionari la sua vita fosse finita dentro un videogame da vendere ai turisti di Piccadilly, o ai marchettari di Leicester Square, tutti coi loro giochetti in mano dalla mattina alla sera senza mai fare un penny, perché brutti come cozze e arroganti.
   Ma una vita veramente avventurosa può comportare inaspettati crolli di tenerezza. Non a caso questa donna, oggi con scarsissimi mezzi finanziari, mi cita anche un suo flop editoriale: un romanzo scritto a quattro mani con un sudafricano nero e pubblicato da Jonathan Cape negli anni Sessanta: un giallo ambientato in un villaggio del Besotholand, con omicidi a base di pozioni e filtri magici ...
   Se le cose sono andate veramente così, se questi fatti sono diventati ormai Storia, che scopo avrebbe continuare a chiedermi per quale motivo Miriam mi susciti il senso di qualcosa di paradossalmente qui e da nessuna parte, cioè di utopico?
   La risposta non può che essere ovvia, banale: se è vero che l'Africa di cui mi parla mi resterà sempre enigmaticamente utopica è anche vero che questa donna porta dentro di sé tutte le meraviglie che non pochi insofferenti vorrebbero cercare lontano dalla Gran Bretagna: insomma, per dirla col povero Thomas Browne: Miriam possiede già tutta l'Africa e tutti i suoi prodigi. E sento che mi basterebbe solo ascoltarla.
   "Se sei interessato …", fa lei a un certo punto in un momento in cui mi sono distratto, "Ti posso raccontare il nostro tentativo di fuga, culminato in questa folle corsa attraverso tutto il continente.
   "Il 10 gennaio del '61", continua a dirmi, "partimmo in macchina da Johannesburg di notte: io, Bas e i nostri tre figli."
   Comincio a fissarla, i miei occhi color ambra che vorrebbero centrifugare come il cestello della lavatrice che ho in cucina: le mie domestica erotica.
  "Le prime trecento miglia attraverso un faticoso e interminabile Transvaal", fa accentuando certe sillabe, il timbro basso e cavernoso, vibrante nonostante glia anni di indignazione, "fino al confine con l'allora Rhodesia, nei pressi di Beitbridge, sul fiume Limpopo. Le guardie di frontiera erano mezzo addormentate, quindi diedero appena un’occhiata ai nostri passaporti scaduti, passaporti turistici, senza nemmeno mettere il timbro.”
   "Incredibile ...”, faccio.
  "Il pomeriggio del giorno seguente", continua lei e annuisce, "altre centocinquanta miglia, con una improvvisa deviazione rispetto all'itinerario prestabilito, per far vedere ai bambini il più impressionante degli edifici della Rhodesia: il maestoso tempio ellittico all’interno delle grandi rovine di Zimbabwe.
  "Lì, il campo turistico si rivelò oltre che cheap anche inopportuno per dei fuggiaschi indesiderati  quali a quel punto eravamo noi, nel caso il governo di Pretoria e l'esercito  rhodesiano si fossero accorti della nostra fuga, soprattutto della sparizione di Bas."

  Miriam continua a parlare di questa loro fuga. Passa a dire del Mozambico prima dell'indipendenza, di come avevano attraversato anche qui facilmente il confine, e di come speravano di raggiungere il Tanganika - l'odierna Tanzania - attraverzo il Nyasaland, con una sosta lungo "un lago", che immagino sia il lago di Niassa.
   "E del lago di Niassa non mi dici niente?", la interrompo.
  "E’ uno dei più profondi dell’Africa", mi spiega. "Possiede una fauna ittica incredibile, s'è conservata durante i periodi interpluviali, il bacino non arrivava mai a prosciugarsi completamente."
   "Deve essere veramente unico", faccio.
   "Sì, ma ricordati che oggi non si chiama più Niassa."
   "Lo so, ma che importa? chiamiamolo, tra noi, lago di Niassa, mi piace di più."
   "Lago Malawi!", mi rimprovera lei: "o così o niente."
   "Ma poi in Mozambico che è successo?"
   "Passiamo il confine col Mozambico senza problemi", spiega di nuovo gentile: "ma arrivati a Changara temiamo di trovare un'autorità locale ostile e alleata con la temibilissima 'polizia segreta' portoghese.  La cosa migliore è partire subito per il Tanganika a nord, viaggiare a tappe forzate."

   Mentre racconta con sempre più foga e entusiasmo, il meraviglioso che si era tanto bene impostato si dissolve nel niente: sento l’orologio al quarzo fare bip bip.  Tanto che mi viene da pensare che il tempo sia la più grande delle sciagure umane.
   Avrei potuto restare, dormire in una stanzetta, ma mi è impossibile abusare di tanta ospitalità, di questa donna che si muove appena. Avrei voluto farmi raccontare una seconda volta di Lourenço Marquez, l'allora capitale del Mozambico, oggi Maputo: di come molti sudafricani bianchi per sottrarsi alle folli restrizioni morali della Chiesa olandese riformata andavano a riposarsi proprio in questa grande capitale e sulle sue belle spiagge: l'Hotel Polana: quel pezzo di Europa sul versante africano dell'Oceano Indiano, a bere vinho verte perfettamente ghiacciato e a gustarsi i prelibati gamberi del Mozambico in salsa Piri-Piri piccantissima.

   Aspettando il treno per Londra, alla stazione di Leominster - al confine tra Galles e Inghilterra - leggo un cartello in inglese e gallese: attenti alle turbolenze dei treni in transito: tenere d'occhio carrozzine e passeggini.
   Poi in treno tiro fuori il mio vecchio Nintendo: le palline schizzano impazzite come schegge e proiettili volanti.
  
   Un uomo invece più apparentemente modesto, senza specifici intenti rivoluzionari, fece anche lui, alla fine degli anni Settanta, un’improvvisa apparizione nel continente nero: proprio in Sudafrica e poi in Rhodesia, come ancora veniva chiamato lo Zimbabwe.
   Che diavolo ci faceva in Africa quest’uomo?  Era andato spacciandosi per giornalista, ma per avere in realtà notizie più importanti su un certa persona. Su chi?
   Su un altro personaggio, che subito dopo il rilascio dalle prigioni del Ghana si era diretto proprio in Rhodesia. L'intenzione, per quello che ho sempre sentito dire, era forse di entrare nelle file dello ZNLA: lo Zimbabwe National Liberation Army il braccio armato dello ZANU, l'organizzazione di Mugabe – cose che nel '77 ero in effetti piccolo per capirci qualcosa.
   Una volta arrivato in Rhodesia, il finto giornalista si era sentito dire da un ex diplomatico del Foreign Office che la persona che cercava militava invece con certezza nelle file dei famigerati ribelli di Joshua.
   La cosa forse più incredibile era che questo finto giornalista, si mostrava tranquillo, rilassato, anche se a voler essere onesti l'Africa per lui - grazie a alcuni altri viaggi fatti - non era una novità ...
   "Zuppe di pesce e innumerevoli diarree rosa", mi viene da banalizzare in aereo pensando a tutti i crostacei che mi sono mangiato la prima volta che da bambino sono stato in Africa, per ritornarci poi soltanto molti anni dopo, poco più che ventenne: non in Zimbabwe ma in Mozambico. "Devo per forza metterla a ridere", continuo a dire a una persona che ha deciso di venire con me oggi in Africa, dove torno di nuovo per la terza volta dopo quell'incontro con Miriam. "Oggi andiamo a divertirci, ma quello del falso giornalista che ti ho detto era uno dei periodi assolutamente più tragici della storia africana: il che significava soprattutto la Rhodesia: la guerra civile tra bianchi e neri ... Da una parte avevi i guerriglieri dello ZIPRA, il braccio armato del partito di Joshua Nkomo, lo ZAPU, oltre a quelli del partito di Mugabe, dall'altra le forze governative razziste di Ian Smith."
   "Ma l’Europa che posizione aveva?", domanda lui, stranamente interessato.
  "Come che posizione aveva? Ma che c. dici? Ti ho detto che siamo alla fine degli anni Settanta, che posizione poteva avere l'Europa se non continuare a sfruttare come poteva ciò che era sfruttabile? Comunque", faccio pensandoci, "c’è una foto del ‘79 che ritrae la Thatcher disgustosamente seduta per terra davanti alla poltrona dove se ne sta seduto il vecchio Ian Smith. La didascalia diceva che la Tatcher voleva essere rassicurata, e non ho mai capito bene di che cosa".
  "Che c'è da capire?", fa lui, che si chiama Nick e è un bancario australiano, e ogni tanto beviamo una birra al pub. "Le donne hanno sempre giocato un ruolo fondamentale in certi periodi critici."
   "Ma senti questo! ... E magari mi vieni a dire che la principessa Diana ha salvato il mondo dalle mine", e mi viene il sospetto di essere venuto in Africa con un intellettuale.
    "E infatti c’è riuscita", fa lui.
   "Ma che pensi", gli dico incazzatissimo, "che gli altri fossero tutti degli idioti? In quell'estate del ‘77, quando quello scemo - come magari lo consideri tu - era atterrato a Johannesburg per dirigersi con una Range Rover cachi verso nord, al confine con la Rhodesia, la questione mine era più di ogni altra all'ordine del giorno: il che significava né più né meno la guerriglia nera rhodesiana: le forze di liberazione da una parte e la violenza coloniale di Ian Smith dall’altra. Tutto qui. Con i guerriglieri acquattati dapertutto ti potevi muovere soltanto infilandoti immediatamente con la macchina all'interno di questi grossi convogli armati. In più, a detta di molti corrispondenti che già affollavano quelle zone, sarebbe stato più sicuro volare da Johannesburg fino alle Cascate Vittoria: rischiare i missili Sam 7 della guerriglia piuttosto che attraversare in macchina tutto quella parte della bassa Rhodesia.”
   "E quell’uomo se ne andava tranquillo in giro per vedere l’Africa in guerra?"
  "Tu sei fuori. Andare in giro a fare il turista! ...Aveva altre cose per la testa, cercava di mettersi in contatto con una persona a lui cara, arrivi a fare di tutto  ... E infatti un primo segno della gravità della situazione gli arrivò proprio a Beitbridge, dove nello stand turistico della Casa della Dogana vede un ragazzino bianco che vorrebbe comprarsi una t-shirt con una bella scritta: Give 'em Hell, Smithie ma il padre gli molla uno schiaffone."
   "Mettiglielo in c., Smithie?", ripete lui come se non capisse. "Ah, ok", dice subito, e invece mi pare che non abbia capito niente. "E poi?", domanda.
   "Quello schiaffone del padre", gli dico, "rimette le cose ha posto. Poi il padre spiega al figlio che Smithie è Ian Smith, il razzista primo ministro della Rhodesia. E che nei territori attorno se ne stavano nascosti i suoi più feroci oppositori, i guerriglieri di Joshua."
   "Interessante", fa lui.
  "Vabbè, adesso piantala!", e mi metto a vedere il film nello schermetto davanti, con le cuffie.
  
  A Beitbridge, il ponte sul fiume Limpopo, il confine geografico tra Sudafrica e Rhodesia: a percorrerlo in questo luminoso inizio maggio 2001, in cui nuove meno feroci tensioni oppongono i veterani di guerra, ormai ridiventati padroni, ai bianchi che ancora posseggono un po' di terra, e sulla presenza dei quali il governo di Mugabe aveva già nell'‘80, anno dell'indipendenza e della dichiarazione dello Stato di Zimbabwe, chiuso un occhio.

   Telefono a Parigi, facendo un numero a caso. All’uomo che mi risponde, e che suona anziano, comincio a dire: "intravedo le grasse acque grigio verdi del Limpopo, e mi piacerebbe esserci di nuovo con te."
   Il tipo mi da spago. Allora penso di essere incappato in un gay e mi viene voglia di riattaccare. Ma poi ci ripenso.
   "Ma tu mi conosci?", faccio.
   "Sì", fa lui.
   "E chi sei?"
   Non mi risponde.
  "Ieri", continuo a dire, "ti ho lasciato un lungo messaggio sulla segreteria: quell’osceno portoghese, te lo ricordi? il gran coglione, come lo chiamavi tu e come mi raccontavi: tutte le sparate sui morsi del mamba nero, sui rinoceronti e i bufali che attaccano senza essere provocati, sugli scorpioni che si infilano nelle scarpe, gli elefanti che hanno la vista corta e bisognava scappare quasi accucciati.
  “Il razzista diceva che eri matto a puntare a nord,  e quando ha cominciato a fare battute sui neri tu gli hai detto di smetterla, e di allontanarsi da te, e stavate quasi per prendervi a botte, e poi hai deciso di puntare proprio a nord: in quel grandioso tratto del fiume Zambesi, come me lo raccontavi bene, tra le cascate Vittoria e il lago Kariba, ‘a far finta di pescare il pesce tigre, una delle specie d'acqua più prelibate’, come dicevi tu, papà."
   "Ma ora, Valeriù", mi risponde veramente stanco mio padre, "ci sono situazioni anche più incasinate. Non spingerti in zone poco battute."
  E io riattacco. E mi dico che sarebbe bello invece morire in Africa: essere completamente divorato da un coccodrillo e vedere il mio cervello galleggiare sullo Zambesi in forma di ciambelletta e di salsiccetta bianca, gli escrementi di un coccodrillo: IO.
  
   "Di tanto in tanto", racconto a Nick, che si è offeso perché gli ho detto che con me non deve fare "il professore" altrimenti ognuno per la sua strada, "quel personaggio vedeva saltare in aria qualche stupida antilope che aveva messo le zampe nel posto sbagliato. E nei momenti migliori pescava o chiacchierava coi vari corrispondenti.
   "A anni di distanza", continuo a dirgli, "quel personaggio mi appare anche più eroico, perché batteva aree di guerra veramente feroci. Quasi tutti - turisti o giornalisti - volavano direttamente nelle zone interessate, nessuno si avventurava troppo, come faceva lui, che a volte se ne infischiava perfino dei convogli militari, perché l'ultimo lo aveva perso e per il prossimo avrebbe dovuto aspettare il giorno dopo.  E lo scopo di questa sua apparentemente assurda attività", continuo a dire a Nick – siamo sempre in autobus - "in una regione in cui i guerriglieri non risparmiavano nessun bianco e nella quale ci si muoveva solo con questi grossi convogli armati, con gli elicotteri sulle teste - era, credo ingenuamente, follemente, anche se quell'uomo aveva certi agganci, di entrare in contatto proprio coi ribelli di Joshua, tra i quali, secondo quella fonte attendibile, si trovava quella persona a lui cara. Ma tutto questo doveva rimanere segreto. Se il governo di Ian Smith avesse anche solo lontanamente immaginato le reali intenzioni di quell’uomo non so come sarebbero andate le cose. Perché spero che a questo punto avrai capito che quest’uomo era un bianco e era mio padre.”
   Nick mi dà una gomitata nel fianco, ed è poprio incazzato, adesso. E io guardo il paesaggio fuori, con una punta di malinconia, perché di quell'uomo non si è mai riusciti a avere notizie più precise, anche se non a caso sono rimasto col desiderio di riuscire un giorno a rintracciarlo io, a rintracciare mio zio, trovarlo  invecchiato in qualche sperduto angolo di un continente ormai - si spera - senza più un briciolo di terra colonizzata.

  E così, mentre oggi ripercorro in luxury coach quattrocento e più miglia da Beitbridge fino alle Cascate Vittoria, sento che quell'uomo, che non ho mai conosciuto se attraverso i racconti, è presente nelle cose intorno: nei baobab grigi, nei loro frutti enormi a forma di mammelle gonfie di latte, negli arbusti, nelle buganvillee. Lo percepisco in questa che divenne la sua nuova terra: fianco a fianco dei neri coi quali combatteva per l'autodeterminazione, dopo avere abbandonato il Ghana di Nkruma, che dal ‘57 fino al ‘66, anno del rovesciamento del suo regime da parte dei militari, era diventato il simbolo della liberazione e dell'unificazione di tutta l'Africa: cioè di un panafricanesimo di cui Nkruma era senz'altro l'apostolo.

   Mi viene da sporgere le labbra. Mi vengono dei dubbi. Alle Cascate Vittoria il receptionist dell'albergo, ormai in età pensionabile, mi dice che è del Ghana anche lui.  E io mi accorgo che non c'è modo di uscire da tutti questi segni che riportano a quel paese, al Ghana, e che mi fanno pensare che quell'uomo di cui ho sentito tantissimo parlare nella mia infanzia e più tardi, forse è ormai proprio quest'anziano nero, se l'evoluzionismo di Darwin ha ancora un senso.  Oppure non sarà per caso questo receptionist proprio il famoso newyorkese del Ghana, nonostante l'accento ghanese?
   Dunque alla fine sempre e nuovamente il principio. E a parte il nero di New York, di cui mi parlava Miriam, emissario di Cosa Nostra in Ghana, ci sarebbe anche un medico nazista, di cui mi ha parlato sempre lei, la vedova di Basner. Con ogni probabilità erano stati rinchiusi tutti nello stesso carcere di Accra.  E perché mai il socialista Nkruma aveva accolto nel suo paese questo “ex medico nazista che durante la Seconda Guerra Mondiale aveva condotto orrende operazioni sugli internati di un campo di concentramento in Germania? Pare - mi diceva Miriam - perché "the hyper-sensitively humane Kwame Nkrumah gli aveva permesso di restare nel paese a condizione che si dedicasse a salvare vite in aree particolarmente povere e insalubri."  E il povero nero americano?  Sempre Miriam mi raccontava che si trattava di un business envoy della mafia newyorkese, arrivato in Ghana prima del colpo di stato del ‘66 con l'equivalente di circa cinquantamila sterline (una grossa cifra per quei tempi) per concludere un affare con il ministro per le Foreste del governo Nkrumah - questioni di legname, pare.  Aveva firmato il contratto, versato il contante ma del legname nemmeno l'ombra. E così si era ritrovato in galera, perché gli avevano detto che stava a lui decidere: o dimenticarsi di avere mai concluso l'affare e lasciare il paese, oppure finire in galera in attesa di processo e attendere una eventuale deportazione come ospite indesiderato.  E lui aveva preferito andarsene in galera, attendere il suo destino legale a Accra piuttosto che tornare in America e ritrovarsi dentro un blocco di cemento in fondo all'East River.
  
   "Ohhh, rieccoci col Ghana", mi rimprovera un amico inglese qualche giorno fa a una cena di sette otto persone, organizzata per festeggiare tra le altre cose il mio ritorno dopo parecchi mesi dall'Africa.
   "Rieccoci col Ghana", rifà una seconda volta visto che non demordo.
   "Che problemi hai?", gli dico.
   "E tu avresti il coraggio di parlarmi ancora del Ghana", rifà per la terza volta panzabbottata.
   "Perché, che ci sarebbe di male?"
  "Un altro di quei paesini della Costa d’Avorio tutti schiacciati uno addosso all'altro ... Prima o poi, te l'assicuro, schizzano tutti in aria.”
  "Il Ghana", replico io tranquillo - e affondando la forchetta in un pezzo di filetto di manzo alla Strogonoff, "è stato il primo paese africano a essere dichiarato indipendente, altro che paesino, e mi pare che Nkrumah, sia stato l'apostolo del panafricanesimo."
   E mentre mi alzo per infilazre un altro pezzo di manzo nel vassoio in mezzo al tavolo, mi esce una piccola scorreggia. Ma non batto ciglio. Segno che col passare degli anni il mio rispetto per le convenzioni diventa sempre più imponderabilmente felice.
(Novembre 2001)


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