martedì 17 settembre 2013

Giulietto e Romeo, splendori della filologia e potenza della parola in Shakespeare



Non è un caso che ancora oggi, parlando delle più recenti produzioni del Romeo and Juliet, i registi teatrali italiani – ma è da almeno una trentina d’anni - dietro una sempre più ossessiva spinta all’imitazione di tutto ciò che è inglese o americano e per evitare l’accusa di essere poco filologici si attengano anche più che in passato a una precisa, anzi letterale traduzione del titolo e preferiscano portare in scena un meno compromettente Romeo e Giulietta invece del classico Giulietta e Romeo, come in Italia il grosso pubblico continua a nominarsi questa coppia; e in questo modo più popolare e più diffuso continuano in effetti a chiamarsi tanti alberghi ristoranti, bar eccetera. E sarà poi, checché ne dica la popolazione rozza e ignorante, una banale questione di abitudine. E per chi vuole capire questo è campo specifico dell’estetica. Ci si dimentica d'altronde, pur con le migliori intenzioni di tanti registi e traduttori, che una qualsiasi rappresentazione del teatro di Shakespeare oggi sarebbe comunque non precisamente filologica in partenza se non si escludessero dal palcoscenico le donne - women were prohibited by law, se volessi ripetere il fatto in inglese, to act on the Elizabethan stage.  Elisabetta non gradiva. Così come non gradiva Giacomo I. I più accreditati anglisti, pronti a difendere l’indifendibile, assicurano, in mancanza di fonti certe, che le parti femminili erano sempre e soltanto affidate a ragazzi e mai a uomini maturi. Quando possibile sarà stato così: ma se mancavano questi benedetti bei ragazzi senza barba e dai tratti poco virili e a cui la voce si “rompeva” tardi, tanto che se ne sarebbero potute ascoltare le grazie femminili anche dopo i vent’anni, e che fossero nello stesso tempo bravi e professionali, che si faceva, si rinunciava al teatro? È vero invece che il teatro shakesperiano era un teatro molto più simbolico di quanto il pubblico che va a teatro oggi non immagini, ciò che risulta abbastanza chiaramente dalle stage directions inserite nei manoscritti e nelle prime edizioni, cioè dalle didascalie relative ai movimenti degli attori, alla musica, e agli eventi, e anche dalle descrizioni scenografiche, che riportano, quando pure avviene, soltanto miseri suggerimenti, tanto che un allampanato cespuglio poteva indicare un’intera foresta – un intelligente contributo in questo senso venne da Masolino D’Amico, nel suo antico Scena e parola in Shakespeare, del lontano 1974, insuperata ricerca sulle funzioni sceniche della parola: la sola parola, il testo, avrebbe la capacità di generare spazi, luoghi, tempo e gli aspetti più materiali del teatro. Che poi è cosa tipica di ogni grande autore, mentre si vedano i goffi tentativi di Baudelaire di elaborare un proprio teatro, il quale risulta in realtà un non teatro: la parola cioè non sa generare gli spazi, le azioni, non c'è movimento. In questo senso il teatro elisabettiano ricorda invece, anche più di altre grandi tradizioni nazionali, la simbologia del teatro giapponese e orientale in generale: il pubblico era così abituato alla magia della parola che per assurdo pure una peluria non l’avrebbe vista sul volto della stupenda e poco più che ragazzina Cordelia; oppure se l’attore l’avesse indicata con un dito e avesse detto che era cipria o belletto lo spettatore ci avrebbe visto soltanto questi, perché alla parola era interessato, non a gustare voyeuristicamente, con la bava alla bocca, le forme dell’attrice sotto il costume. Shakespeare stesso ci gioca nel Midsummer Night’s Dream, quando una compagnia di dilettanti deve spiegare alle altezze reali – alle donne in primo luogo - che il personaggio che fa la parte del leone e indossa soltanto una pellaccia polverosa e sudicia non è un vero leone, e lo stesso deve fare l’attore che impersona una parete attraverso un buco della quale i due innamorati devono parlarsi.  Così, se si volessero scimmiottare fino in fondo i filologi, non basterebbe più nemmeno scrivere Romeo e Giulietta, bisognerebbe semmai avere il coraggio di allestire un Romeo e Giulietto, o anche un Rometto e Giulieo. Oppure abbandonare completamente questi sogni di gloria e di originalità camuffati contraddittoriamente nel concetto opposto e non interessante di “in origine era così”, di scarsa rilevanza per il contemporaneo.  

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