sabato 21 settembre 2013

voce antica più che contemporanea



Voce più che contemporanea quella di Plinio il Vecchio se nel VII libro della sua Storia naturale, pur non nascondendo una discreta, sincera ammirazione per Gaio Cesare (la sua celebrata clemenza e, in particolare, ammirazione di ciò che viene detto un eccezionale vigore d’animo e che non sarebbe oggi altro che un misto di forza di carattere e potenza intellettuale [animi vigore prestantissimum arbitror genitum Caesarem dictatorem] e ammirazione del suo incomparabile insuperabile elevato sentire, che l'avrebbe indotto dopo la battaglia di Farsalo, quando si trovò tra le mani il cofanetto con le lettere di Pompeo, e in un esempio di superiore elevatezza morale, a bruciarle senza leggerle [concremasse ea optima fide atque non legisse], lo stesso che avrebbe fatto con le lettere di Scipione a Tapso) finisce poi per accusarlo ugualmente e senza mezzi termini di crimini contro l’umanità [tantam etiam coactam humani generis iniuriam] per il milione e centonovantaduemila uomini che fece perire con le sue cinquantadue battaglie escluso però il numero dei morti delle guerre civili (la questione non cambia se si seguono altre cifre di altri scrittori dell’antichità: i quattrocentomila morti di cui parla Velleio Patercolo o il milione che riporta Plutarco). Cifre quindi abominevoli non solo per la coscienza odierna.

Non meno tagliente il giudizio di questo scrittore - anzi più che giudizio tagliente, il suo sarcasmo feroce - quando sempre in questo settimo libro della Naturalis Historia accenna ancora, in una sorta di benemerita coazione a ripetere, a un altro dittatore, a Lucio Silla. “Si è senz’altro”, dice Plinio, “attribuito il soprannome Felice a causa del sangue dei tanti concittadini che ha versato e per aver posto sotto assedio la sua stessa patria. E quali sarebbero", si domanda Plinio, "questi argomenti di felicità? Avere trucidato e proscritto così tante migliaia di uomini?” [Felicis sibi cognomen adseruit L. Sulla, civile nempe sanguine ac patriae oppugnazione adoptatum. Sed quibus felicitatis inductus argumentis? Quos proscrivere tot milia civium ac trugidare potuisset?]. Ma è un pauroso crescendo, quello di Plinio, e Lucio Silla gli suscita ancora, a centocinquant'anni dalla morte, un indicibile e irriducibile disgusto: “la sua morte non fu forse più crudele della fine di tutti i suoi proscritti se il suo stesso corpo s’incancreniva e generava da sé il suo stesso supplizio? Ma ammettiamo che abbia saputo dissimilare il suo male e prestiamo anche fede al suo ultimo sogno, all'interno del quale si è per così dire addormentato, che cioè lui soltanto sia stato in grado di vincere l’invidia generale grazie alla gloria che ritiene di avere conquistato: ciò che resta è che lui stesso ha dovuto ammettere che alla sua felicità è mancato il non aver potuto dedicare il [nuovo tempio di Giove Ottimo Massimo sul] Campidiglio [quod ut dissimulaverit et supremo somnio eius, cui immortuus quodammodo est, credamus ab uno illo invidiam gloria victam, hoc tamen nempe felicitati suae defuisse confessus est quad capitolium non dedicavisset]. Sicuramente sarebbe diventato un topos, se questa immagine di un tassello mancante fu poi ripresa anche da Tacito nelle sue Storie (vedi libro terzo).

Atteggiamento quasi beffardo (splendida nemesi storica) nei confronti anche di Ottaviano Augusto, del quale dopo aver enumerato le numerosissime disgrazie e miserie dell'esistenza terrena (tra feroci proscrizioni e figlia e nipote adultere, naufragio in Sicilia, caduta dall'alto di una torre nella guerra in Pannonia, numerose rivolte militari, infinite malattie anche gravi tra cui un brutto edema che gli gonfiava disgustosamente il corpo eccetera eccetera, a cui si aggiunse pure la sconfitta finale delle legioni di Varo in Germania) si domanda se quest'uomo non sia stato proclamato "dio" indipendentemente da tutto, e se il cielo, l'apoteosi, più che averlo meritato non gli sia stato semplicemente dato, visto che morendo fu pure costretto, tra le altre disgrazie, a lasciare erede il figlio di un suo nemico [in summa deus ille caelumque nescio adeptus magis an meritus herede hostis filio excessit].      

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