martedì 10 febbraio 2015

dittografia dell'arbitrio: copisti da Platone a Flaubert



La dittografia è un errore sempre possibile: che si scriva a mano o al computer. Nello studio dei papiri, o di una tradizione manoscritta, non appare che raramente, e in questo senso è una possibilità necessariamente sopravvalutata dalla critica testuale  – anche oggi non succede quasi mai di scrivere due volte di seguito una
stessa parola, e quando succede è perché si sta rivedendo o correggendo un testo. E ancora più difficile è  immaginare - oggi come un tempo - una dittografia che si produca per ripetizione di una sillaba, soprattutto finale, anzi (data la velocità di scrittura alla tastiera) è più facile immaginarlo nei moderni che negli antichi.

Il dioti della prima epistola platonica, in cui alcuni hanno voluto vedere il risultato di un’originaria dittografia di quest’ultimo tipo (gia a partire da Bonifatzius, e così anche Alpetius, Vahlen, mentre Ferenz Novotný, intelligentemente, nel suo commento, si limita a ricordare la questione), non è necessariamente un’altra prova che l’epistola non è autentica. Il fatto che Platone non usi mai dioti (perché) nel senso di una relativa al posto di oti (che), non dice niente. Pasquali, in quel suo piccolo gioiello delle Lettere di Platone, attacca poco garbatamente e senza nessun convincente motivo l’autore dell’epistola: la ritiene una bassa imitazione di una falsario che non saprebbe nemmeno imitare lo stile del modello. Su questo, anche il grande (onnipotente) Pasquali toppa: non è infatti detto che il falsario sia stato proprio lui a usare questo dioti, che non sia stato invece inserito da un copista in un'epoca in cui dioti toglieva sempre più spazio nelle relative a oti, in un'epoca insomma in cui un tale uso fosse meno censurabile. I pochi esempi che si registrano tra i classici, tra cui Erodoto e Aristotele, non sono per la stessa ragione probanti, nemmeno se si immaginassero "sviste" di Erodoto e di Aristotele (nel qual caso si dovrebbe comunque ammettere, già in tempi meno recenti, uno uso di dioti nelle relative anche in autori di un certo calibro). Così, anche il semplice richiamare l’attenzione su quest’uso di "dioti" non collimante con lo stile dei dialoghi di Platone, e sulle tante pagine scritte su questa ridicola questione, cadrebbe a proposito se ci si volesse introdurre al più generale concetto di una critica testuale fondata sull’arbitrio, cioè sull'aspettativa, sull'uso che "ci si attende" da un certo autore (il discorso si ricollega ovviamente a quello delle difficoltà di stabilire una cronologia certa per le singole opere del singolo autore - variazioni nello stile, usi ripresi, usi abbandonati, usi sporadici, come già detto, ecc.).

E intanto, riguardo alla prima espitola platonica, ci sarebbe da dire che non si può neanche escludere che dioti fosse un tentativo di correggere un oti usato correttamente dal falsario in un punto in cui un copista ci vedeva  – o pensava che - dovesse esserci un dioti: che si aspettasse cioè un’esplicativa al posto di una relativa: non un che ma un perché. Non sarebbe una sintassi particolarmente felice ma nemmeno impossibile se la correzione arriva in un’epoca che sente e pensa diversamente dai tempi di Platone. E comunque il contesto porta a escludere, almeno su questo, l’ignoranza del falsario. Il Platone personaggio dell’epistola, dopo avere attaccato sarcasticamente Dionisio per il trattamento ricevuto a Siracusa, e avergli rammentato un verso di Euripide sul rimpianto che susciterebbe la perdita di una persona in precedenza tenuta in spregio -

κγ γρ κανς π σο τεθεράπευμαι. καί μοι τ το Εριπίδου κατ καιρόν στιν επεν, τι σο πραγμάτων λλων ποτ συμπεσόντων – 
      
     εξ τοιοτον νδρα σοι παρεστάναι.

per quanto mi riguarda infatti ti sei preso abbastanza cura di me. E si adatta perfettamente a questa situazione se ti cito il verso in cui Euripide dice  c h e  (qui oti usato secondo norma) quando incapperai in situazioni diverse:

desidererai che ti fosse vicino un simile uomo -

aggiunge:


πομνσαι δέ σε βούλομαι  δ ι ό τ ι  κα τν λλων τραγδο-
ποιν ο πλεστοι, ταν πό τινος ποθνσκοντα τύραννον
εσάγωσιν, ναβοντα ποιοσιν  κτλ

E voglio ricordartelo  p e r c h é  (traduco per ipotesi così, invece che con “voglio ricordarti che”) anche la maggior parte degli altri tragediografi, quando mettono in scena un tiranno che muore per mano di un altro gli fanno esclamare eccetera

Dunque, per quale ragione il falsario nel primo caso userebbe correttamente oti e subito dopo gli verrebbe in mente di usare dioti? E lo stesso potrebbe dirsi se ci si immagina un copista che corrregga il secondo oti in dioti. Per quale motivo non l’avrebbe fatto anche sopra? E l'unica spiegazione, se si ammette l'intervento di un copista che agisce su un originario oti (a parte l’errore meccanico della dittografia) è che in quel punto abbia sentito la necessità di un’esplicativa, di un perché. L'ipotesi sarebbe comunque preferibile, meno artificiosa, rispetto alla possibilità una dittografia addirittura su una desinenza (più comprensibile, forse, su un'intera parola, e andando a capo). Difficile immaginare che leggendo nel suo esemplare BOYLOMAIOTI - supponendo che leggesse in littera maiuscula e, secondo l’uso, senza spazio tra una parola e l'altra - il copista ripetesse, per disattenzione, AI della desinenza: BOYLOMAIAIOTI, e che poi un secondo copista, copiando a sua volta, correggesse AIOTI in ΔIOTI. Da idioti, insomma.

Un caso simile ha un suo fascino, ma ci si ferma al “fascino”, alla suggestione – e qualcosa bisognerebbe dire sanche sul tanto ripetuto mito dell’ignoranza dei copisti, che copierebbero senza leggere o senza vedere quello che hanno scritto, e che ha sempre fatto comodo a tanta arrancante critica testuale. Se è vero che da un copista all’altro, errore dopo errore, feliciter transire videtur gloria auctoris, non è certo sulla base di  una ditttografia su un desinenza che si può pensare di ricostruire l'originale uscito dalla penna dell'autore. E come detto, questa presenza di dioti nella tradizione delle lettere di Platone, cadrebbe comunque a proposito (κατ καιρόν) a porre il problema delle miriadi di incertezze testuali su cui si fondano – tra errori di scelta in fase di recensio e errori ideologici - le moderne edizioni dei testi antichi.

Non è forse un caso che nel suo ultimo romanzo (incompiuto) Flaubert abbia scelto come protagonisti due copisti che lavorano in due uffici differenti; i quali si conoscono per caso un pomeriggio afoso di luglio a Parigi quando vengono a sedersi su una stessa panchina, e mettono i cappelli nel mezzo e ognuno legge il nome dell'altro nell’etichetta incollata all'interno: Bouvard et Pécuchet. Inizio di una grande e incontrastata amicizia. Nemmeno l’unica donna del romanzo riuscirà a separarli. Compito immane che i due si propongono è ricopiare monumentalmente lo sciocchezzaio umano finito nei libri di ogni genere e tempo: ricopiare le migliaia e migliaia di opere pubblicate dall’uomo. E ci sarebbe da chiedersi se nel ricopiare le così tante sciocchezze prodotte dall’umanità siano stati alla fine presi da un loro furore ideoclasta, e se non abbiano inserito volutamente di proposito errori in mezzo ad altri errori. E ci sarebbe ancora da chiedersi se Flaubert non avesse avuto in mente come sottotitolo di questo romanzo non tanto Enciclopedia della stupidità umana, quanto Enciclopedia dell’umanità in errore perpetuo.   

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