Se volessi dire qualcosa su quei giornalisti italiani che
vanno per la maggiore e volessi scriverlo nel greco usato mettiamo ai tempi di
Cesare allora forse mi inventerei qualcosa come:
παραλογίζονται πολλὰ
οἱ διασημηνάμενοι ἀπειράτως περὶ τοῦ τῶν σπουδαίων ἀνθρώπων βίου
In altre parole:
toppano alla grande
quando si mettono a descrivere, senza averne esperienza di prima mano, l’esistenza quotidiana di uomini e donne che a differenza di
loro lavorano seriamente.
Che è poi il grosso dell’umanità. Per questa stessa ragione - e invertendo il punto di vista -
non riesco a capire perché i tanti italiani che sputano letteralmente sangue per arrivare
alla fine del mese si mettano poi a leggere pseudo-analisi o raccontini mitologici di chi non sa niente non solo della vita altrui ma anche della propria; o per quale ragione - anche senza leggere e limitandosi a un ascolto per così dire passivo - si piazzino davanti alla
televisione e si divertano ad apprendere un mare di sciocchezze su ciò che li riguarda, sulla propria esistenza (che a questo punto verrebbe da pensare la conoscono meno di chi ne parla in forma tanto sciatta e dove tutto è
presente meno che il talento e il pensiero - e sarebbe un capitoletto dell'estetica: ciò che oggi viene percepito come bello o giusto).
C’è da dire che non c’è grossa differenza, nel giornalismo, tra donne e uomini: le
donne esercitano la professione con l'idea di esercitare quel potere che in passato era
loro negato, gli uomini per vanità e narcisismo. I peggiori sono ovviamente gli
uomini: ricordano, senza averne la grazia, i pavoni che aprono la ruota in un deserto (e sarebbe già un'immagine meravigliosa, quanto meno poetica). Ma in
entrambi i casi, uomini o donne, sono motivati dalla carenza di qualcosa. Un po’ come quando si dice:
è carente di vitamina B o C.
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