giovedì 9 gennaio 2014

topogigio, il politico italiano e Sofocle






C’è un topogigio della politica italiana che in questi giorni ha rinverdito un detto coerentemente attribuito a Don Abbondio: “Carneade, chi era costui?”. Faceva bene Don Abbondio a chiederselo, di Carneade forse non sarebbe rimasto niente oggi al grosso pubblico. Topo Gigio è simpatico, questo topogigio della politica italiana, anzi della cosiddetta sinistra italiana, non lo è. Di lui si vede soltanto, quando appare in televisione,
una bocca perennemente dischiusa e una lingua disgustosamente sospesa. Se avesse un senso della decenza la nasconderebbe. Questo topogigio della sinistra italiana, la quale non esiste, non esiste nemmeno lui: è un niente costruito dai media, così come fu per Tony Blair (di cui è rimasto soltanto il falso ideologico ai tempi della guerra in Iraq e la sua incriminazione davanti alla commissione inquirente). E’ comprensibile quindi che questo topogigio italiano, ricorra a immagini da quattro soldi se vuol far parlare di sé un pubblico ammansito dai “megafoni” ex sesssantottini di una nota giornalista italiana al servizio del capitale. Insomma che avrebbe detto questo topinogigio e grigio? Ha semplicemente detto, riferendosi a un suo compagno di partito che l’aveva criticato: “XY chi?”

Parlando di che cos'è il carisma, ci sono dei professori di liceo che fisicamente non ti dicono niente: sessant’anni, piccoli, tracagnotti, calvi, che però appena entrano in aula si fa il silenzio. Quel certo professore è temuto. E non perché ti può mettere due: è temuto perché la sua sola presenza denuncia tutto un vissuto, una dimensione esistenziale che ti fa vergognare del tuo nulla.  E un mio professore di lettere al liceo era esattamente così. Se gli scassavi l’anima (era in genere qualche imbecille che chiacchierava agli ultimi banchi) finiva di leggere mettiamo a Silvia (e con la mano/la fredda morte ed una tomba ignuda/ mostravi di lontano) e poi diceva calmo, col suo accento abruzzese, allo scassaminchia: “hai capite Riccià? Quella t’aspetta a te!” Un grande non ha mai bisogno di imitare un altro se proprio deve essere cattivo: contando sulla sua cultura improvvisa un discreto sarcasmo, un’ironia, un tono di beffa con la facilità con cui si beve un bicchiere d'acqua. Questa frase del mio professore entrò addirittura nell'uso, ce la passavamo un po’ tutti a scuola, incontravi un compagno e può darsi che gli dicevi: "hai capito  Francé? Quella t’aspetta a te!”, e dalla nostra classe passò alle altre e poi alle altre sezioni. Ma non era l’unica di questo grande professore di liceo.

Il topogigio della politica italiana non ha avuto nemmeno il merito, a essere onesti, di citare Don Abbondio: ha detto studiatamente, volgarmente, sprezzantemente, di questo compagno di partito tra l'altro molto conosciuto: "il tal dei tali chi?" Che dà un’immagine di quello che sarebbe costui da presidente del Consiglio: bocca socchiusa, lingua che si muove come fosse in calore e monosillabi di questo tipo inseriti ogni tanto all'interno del flusso di discorsi insignificanti che fa, di chi crede cioè di saper parlare e non sa parlare perché non c'è assolutamente pensiero.

Sarebbe stato ovviamente troppo spingersi oltre Manzoni. Siccome questa è gente che non ha mai riso di fronte a una scena di Aristofane né ha mai pianto davanti a una scena di Euripide o di Sofocle, tutto quello che sa dire, credendo di offendere, è: “XY chi?”. E questo fa notizia, soprattutto tra le ex sessantottine pronte a farne titoli sui loro giornali psuedo progressisti, e la dice lunga sul grado di istruzione linguistica, sulla capacità di articolazione fonetica della maggioranza degli italiani che seguono come delle ochette l'oca madre.

Direbbe un Filottete sofferente nell’omonima tragedia di Sofocle, trovandosi davanti nella deserta isola di Lemno dove il perfido Ulisse l’aveva abbandonato, direbbe dunque il povero Filottete a Neottolemo, il figlio di Achille:

chi, o figlio, ti ha sbarcato? Quale necessità ti ha sospinto?
Quale disegno? Quale dei venti il più dolce?
Dimmi esattamente tutto, così che io sappia chi sei.

(Τίς σ', ὦ τέκνον, προσέσχε, τίς προσήγαγεν
χρεία; τίς ὁρμή; τίς ἀνέμων ὁ φίλτατος;
Γέγωνέ μοι πᾶν τοῦθ', ὅπως εἰδῶ τίς εἶ.)


Il "chi sei" finale in greco suona tisì, che ricorda il napoletano ma chi si. Così basterebbe sostituire al Filottete che qui parla il povero italiano dissanguato da questa banda di narcisi che sono in politica e sostituire ancora a “figlio” “topogigio”e i giochi sarebbero fatti: tutto avrebbe il sapore che dovrebbe avere.

Naturalmente Neottolemo, non ci sarebbe nemmeno bisogno di dirlo, è lì per ingannare il disperato Filottete, che da tantissimi anni trascina la gamba piagata.

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