giovedì 24 aprile 2014

Il comfort e il desiderio



La velocità è nemica del desiderio. Mirando a accorciare o annullare le distanze, una sempre maggiore velocità funzionale dei mezzi tecnologici comporta una sempre più costante eliminazione degli sforzi, delle fatiche di cui il desiderio necessariamente si nutre. Oppure finisce con l'imporre un oggetto del "desiderio" caratterizzato da un tasso di obsolescenza sempre più elevato, adeguato ai nuovi parametri. E questo sempre meno faticoso "desiderare", questa realizzazione sempre più immediata di uno scopo, è esemplificata oggi dalla facile soddisfazione del "desiderio" dell’ultimo
Samsung presente sul mercato (un po' come quando si ha sete e si apre a casa il rubinetto per bere). Il "desiderio" dell’uomo e della donna coincide così col "desiderio" del Capitale e l'unica possibilità di evasione è quella dei cartelloni pubblicitari.

Si tratta d'altro canto di considerazioni che gia svolgeva a suo modo Walter Benjamin, e lo faceva nell'ottica più particolare della produzione artistica, limitamdosi a considerare i rapporti tra accelerazione nello sviluppo della tecnologia, che fino agli inzi del XIX secolo era stato invece più lento di quello che si rivelava nei processi artistici, e la possibilità dell'arte di starle ormai dietro:

"... diventa pensabile questa possibilità che l'arte non riesca più a trovare il tempo di inserirsi in qualche maniera nel processo tecnico; la pubblicità è l'astuzia con la quale il  s o g n o  si impone all'industria." (Das Passagenwerk, G 1,1)".

Lo stesso può dirsi del comfort. Il quale quanto più procede sulla via di Damasco della sicurezza tanto più frustrerà il desiderio. Il mio desiderio, in fin dei conti, di andare al cinema e godermi un film sedendomi vicino a uno sconosciuto che non mastichi patatine o popcorn e che non stia col cellulare premuto sull’orecchio tutto il tempo, il mio desiderio di vedermi il film in santa pace è frustrato dalle modalità di godimento - violente - imposte da questa nuova astuzia del capitalismo, tutta americana, del comfort ad altranza: del poter prenotare, poter dormire tra sette guanciali, di vedermi di conseguenza, a causa dei fautori del comfort ad oltranza, dell'immobilismo, assegnare quel posto e soltanto quello senza che mi si conceda il potermi spostare se lo desidero. In sostanza, la galera. Abitudine, questa della prenotazione, che un tempo vigeva solo a teatro, e che in Italia è di natura piccolo-borghese. Che è poi il discorso che fa Neville, il personaggio del mio romanzo inglese quando parla della fatiche e dei viaggi di Bruce Chatwin e li oppone magistralmente alla ricerca ossessiva delle comodità del suo antagonista nordamericano, che raggiunge un posto sperduto del Tashkent unicamente per vedere se riesce a trovare - dentro la stazione ferroviaria - gabinetti puliti e sandwich asettici serviti magari coi guanti di lattice.

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