mercoledì 30 luglio 2014

ancora su Eraclito: fratelli coltelli

Se grazie a film e a fiction sempre più allegre la civiltà  attuale è tutta incartata e rinserrata dentro sale operatorie e sale autoptiche e settorie, allora con questo gusto delle autopsie (ma appartiene a un più generale gusto dell'orrore e delle morti in diretta: di stragi, impiccaggioni, incidenti, omicidi, rapine, aggressioni, stupri: tutto mostrato in diretta)  se è concreto  questo gusto della autopsie guardate a colazione e a pranzo e a cena, seduti a tavola in famiglia, non suonerebbe più troppo strano (metafora originariamente ardita) il sentir paragonare da una colf la capacità critica di qualcuno, la sua intelligenza nel penetrare cose e concetti, a un bisturi, per quanto ci siano appunto sulla tavola oggetti più immediati e più facilmente utilizzabili per questo tipo di immagini, forchette e coltelli, ormai anche raffinati, meno impegnativi da maneggiare, da tenere in mano o stringere.

Così fratellli coltelli, anche nel caso della filosofia, delle lotte intestine tra scuole filosofiche, non vale più. Semmai fratelli bisturi, e anche se si perde la rima si acquista in ulteriore precisione - vedi le sottigliezze sempre più analitiche del contemporaneo filosofico. La grossolanità, dai convegni, è esclusa. La parola d'ordine, che ci si lancia da una cattedra all'altra è che l'analisi, il taglio, deve essere così continuo e preciso che nessuno deve capire più niente di niente. Tanto meno gli studenti, che d'altronde non hanno mai capito niente. E che si è intelligenti se non si è compresi, dimenticandosi che per essere Aristotele o Husserl o Kant non basta essere qui e lì incomprensibili - d'altronde tutta la Fenomenologia dello spirito di Hegel passa per opera altamente incomprensibile, da sbatterci la testa per anni e anni.

Ma vedi in Eraclito un gusto di veder tagliare ancora i concetti col bel coltellone da macellaio - il fendente menato a Pitagora con lo stesso coltello di cui l'accusa di farsi grande:

κοπίδων ἐστὶν ἀρχηγός (fr.81)

l'inventore dei coltelli!

ancora su Eraclito: prendere i pidocchi



 Il migliore c’ha la zella, nel senso di sporcizia, tigna, quindi miseria, lo stesso significato a Roma come a Napoli, e a Roma significa anche sfortuna, jellache zella! che sfortuna! Ma a Napoli significa anche calvizie ten a zell! è calvo!

Così, a Roma, vale paradossalmente anche pidocchioso – i capelli sono il posto dove i pidocchi attecchiscono. Con riferimento quindi ancora a testa, capo, non però nel senso che potevano avere anticamente, in Eraclito, per esempio, che rimanda piuttosto alla capacità intellettiva. Vedi il noto frammento in cui è questione di Omero e i pidocchi e l’indovinello che gli posero dei ragazzini: 

e dice (Eraclito) che “s’ingannano gli uomini nella conoscenza delle cose evidenti alla maniera di Omero, che fu il più sapiente tra gli Elleni. Alcuni bambini infatti che stavano uccidendo dei pidocchi lo ingannarono, gli dissero: ciò che sappiamo e prendiamo lo lasciamo, ciò che non sappiamo né prendiamo lo portiamo".

ἐξηπάτηνται>, φησίν, οἱ <ἄνθρωποι πρὸς τὴν γνῶσιν τῶν φανερῶν παραπλησίως Ὁμήρωι, ὃς
ἐγένετο τῶν Ἑλλήνων σοφώτερος πάντων. ἐκεῖνόν τε γὰρ παῖδες φθεῖρας κατακτείνοντες ἐξηπάτησαν εἰπόντες· ὅσα εἴδομεν καὶ ἐλάβομεν, ταῦτα ἀπολείπομεν, ὅσα δὲ οὔτε εἴδομεν οὔτ' ἐλάβομεν, ταῦτα φέρομεν.

“preso”m nel doppio significato di prendere (i pidocchi) e apprendere - e vedi sul relativismo di Eraclito quanto accennato altrove.




la rai e il quadrato rotondo



Mi chiedono gli amici perché non guardo la televisione italiana. In effetti guardo al massimo la BBC, e solo quando non sono in Italia, perché in Italia non ho il televisore, e così evito di prendere due piccioni con una fava: la stupidità e anche la pubblicità della RAI.

C’è però soprattutto un motivo formale per cui non guardo la televisione italiana, Rai e compagniam bellam: una ragione connessa con la logica matematica, col calcolo proposizionale: la questione cioè del quadrato rotondo, per come veniva posta nei Principia Mathematica.

Scriveva Bertrand Russell insieme al suo maestro Alfred Whitehead, nel primo volume, capitolo terzo, dei Principia, del 1910:

Whenever the grammatical subject of a pro position can be supposed not to exist without rendering the proposition meaningless, it is plain that the grammatical subject is not a proper name, i.e. not a proper name directly representing some object. Thus in all such cases, the proposition must be capable of being so analysed that what was the grammatical subject shall have disappeared.

In altre parole, se io suppongo che il soggetto di una frase non esiste e se avendo fatto questo la frase in questione continua ad avere senso, allora quel soggetto non rappresenta nessun oggetto.

Così, nella proposizione “la Rai fa vomitare”, se io suppongo  che il soggetto, cioè la RAI, non esiste, quella frase ha ancora un senso (in effetti la RAI fa vomitare proprio perché non esiste). Se dico perciò "la RAI non esiste",  posso sostituire, come primo tentativo di analisi: “è falso che esiste un oggetto che si chiami RAI”.

Pertanto, perché dovrei guardare qualcosa che non esiste?

sabato 26 luglio 2014

La macchina dello Stato e i benemeriti artisti. Nota su Nietzsche



 La tragedia antica come educatrice del popolo poteva formarsi solo al servizio dello Stato.

(Die antike Tragödie als Volkslehrerin konnte nur im Dienste des Staates zu Stande kommen. Nachgelassene Fragmente Ende 1870 — April 1871, 7 [23])

Questa affermazione di Nietzsche, contenuta in uno dei frammenti cosiddetti postumi, potrebbe apparire, come ogni giudizio umano non ancora analizzato con gli strumenti della logica informale, apodittica, di principio, creatura di un possibile ideologismo. Ma è il giudizio di una voce particolarmente autorevole, difficilmente quindi ribaltabile. Intanto ci si dovrebbe piuttosto domandare per quale ragione la tragedia antica, nella sua funzione educativa, non debba o non possa invece formarsi al di fuori dello Stato; oppure, che equivale allo stesso, per quale ragione lo Stato debba profondere così tanti mezzi quanti sono quelli necessari all’allestimento di così tante tragedie in concorso ogni anno nei vari festival (ogni autore ne presentava tre più un dramma satiresco, la cosiddetta tetralogia). Oppure ci si può chiedere per quale ragione la stessa cosa, la profusione di così tanti mezzi, non possa immaginarsi come fatta da una singola famiglia che voglia celebrare se stessa, la propria schiatta. Oppure: a cosa porterebbe immaginare una singola famiglia o anche più di una – il che rientrerebbe comunque in una concezione di Stato - che si faccia promotrice del “bene” estetico pubblico?

Porterebbe, è ovvio, in primo luogo, al concetto di noia e quindi, dato un certo esiguo numero di anni, all’abbattimento del sistema del singolo. Dice Nietzsche nello stesso frammento:

Con il suo elevatissimo egoismo il singolo essere non arriverebbe mai a promuovere la civiltà. Per questo si dà l’impulso politico, nel quale in un primo momento l’egoismo se ne sta tranquillo.

(Das einzelne höchst selbstsüchtige Wesen würde nie dazu kommen, die Kultur zu fördern. Darum giebt es den politischen Trieb, bei dem zunächst der Egoismus beruhigt ist.)

E ancora prima:

Per questa ragione [la tragedia antica come educatrice all’interno dello Stato] il livello della vita politica e la dedizione allo Stato si era così accresciuto che anche gli artisti pensavano soprattutto allo Stato. Lo Stato era” strumento della realtà artistica”. Per questo la più alta aspirazione allo Stato doveva trovarsi proprio in quelle cerchie che avevano bisogno dell’arte. Tutto ciò era possibile solo se lo Stato si reggeva da sé, cosa che è pensabile solo se un esiguo numero di cittadini accede al potere.

(Darum war das politische Leben und die Ergebenheit für den Staat so gesteigert, daß auch die Künstler an ihn vor allem dachten. Der Staat war ein “Mittel der Kunstwirklichkeit”: deshalb mußte die Gier zum Staate in den kunstbedürftigen Kreisen die allerhöchste sein. Dies war nur möglich durch Selbstregierung, diese aber ist nur denkbar bei geringer Zahl von regierungsbefähigten Bürgern.)

In realtà non sarebbe difficile assegnare il "valore di verità del vero" a questa funzione ideologico-educativa del prodotto estetico pure nel caso dell’uomo e della donna di oggi: della televisione, del cinema, delle università, dei giornali finanziati dallo Stato. L’artista, l’intellettuale, che si pone anche in una netta posizione di critica sociale o del potere [vedi La grande bellezza, che raggiunge addirittura gli Oscar] è a tutti gli effetti lui l’inconsapevole reggitore interno, il reggitore dello Stato: di questa spaventosa macchina senza altro nocchiero se non la “potente” propaganda delle immagini e delle parole. Il capitale, la finanza hanno ben poco da preoccuparsi, così come una mamma non si preoccupa affatto di lasciare i pargoli nelle mani di una fidata babysitter. Il lavoro che dovrebbero fare loro, il capitale e la finanza, viene tranquillamente delegato a questo esercito (pur sempre sparuto) di immaginifici e parolai. È interesse, cioè, dei singoli pifferai non tirare la corda oltre un certo limite, pena – oltre la rottura della corda – l’annullamento di sé.

Dice Nietzsche:

L’immane spiegamento di istituzioni politiche e sociali veniva in fin dei conti effettuato a vantaggio di pochi: cioè dei grandi artisti e filosofi – che però non debbono avere la pretesa di entrare nella vita politica, come richiede invece lo Stato platonico. Per loro la natura impiega le altissime e illusorie immagini, mentre per la massa bastano gli scarti del genio.

(Der ungeheure Aufwand des Staats- und Gesellschaftswesens wird schließlich doch nur für einige Wenige aufgeführt: dies sind die großen Künstler und Philosophen — die nur nicht beanspruchen sollen, mit hinein zu treten in das politische Wesen, wie es Plato’s Staat fordert. Für sie braucht die Natur die höchsten Wahngebilde, während für die Masse nur die Abfälle des Genius ausreichen.)

Il paradosso, molla fascinosa e fondamentale di un potere che è dovunque e in nessun luogo, è d’altronde sempre ben oliata e funzionante:

Lo Stato sorge in modo crudelissimo dalla sottomissione, dalla generazione [aggiungerei continua] di una schiatta di fuchi. La sua superiore vocazione consiste nel far crescere [aggiungerei: e far preservare] da questi fuchi una civiltà. L’impulso politico tende alla conservazione della civiltà, così che non si debba ricominciare in continuazione daccapo.

(Der Staat entsteht auf die grausamste Weise durch Unterwerfung, durch die Erzeugung eines Drohnengeschlechts. Seine höhere Bestimmung nun ist, aus diesen Drohnen eine Kultur erwachsen zu lassen. Der politische Trieb geht auf Erhaltung der Kultur, damit nicht fortwährend von vorn angefangen werden muß.)
                                      
È uno Stato illusorio ma in fin dei conti benemerito, che ha pensato anche a uno smaltimento indolore di ciò che non è, via via, necessario:

Vale lo stesso, dice infatti Nietzsche, per il linguaggio: è il parto degli esseri più geniali, mentre il popolo ne utilizza solo la minima parte, e in certo qual modo soltanto i rifiuti.

(Es verhält sich mit der Sprache ähnlich: sie ist die Geburt der genialsten Wesen, zum Gebrauch für die genialsten Wesen, während das Volk sie zum geringsten Theile braucht und gleichsam nur die Abfälle benutzt.)

la gentilezza di Cacciari e il disprezzo di Aristotele



Uno dei tratti salienti del carattere di Massimo Cacciari credo sia la gentilezza (quella che una volta si chiamava gentilezza d’animo). Dico: “credo”, perché non l’ho mai conosciuto: l’ho visto dal vero solo tre volte uno stesso giorno a Venezia, e tutte e tre le volte l'ho incrociato su un vaporetto, quando era sindaco, e sempre con la sua borsa di pelle che si lasciava indovinare piena di cartelle e documenti; non mi sono meravigliato quel giorno di vederlo così spesso: era evidentemente uno che da sindaco lavorava sodo, e che soprattutto non si serviva del motoscafo sperperando i soldi del contribuente: viaggiava insieme agli altri veneziani coi mezzi pubblici. Buon esempio per la cittadinanza. I veneziani non parevano nemmeno accorgersene, un uomo comunque famoso: era – ed è - un cittadino tra i cittadini. Dico ancora che “credo” che il suo carattere saliente sia la gentilezza ( nonostante i sui giudizi politici taglienti e nonostante l’aspetto apparentemente severo, dovuto forse alla barba, che rimanda sempre a un’idea di ascetismo, di distacco dal mondo) perché la fisiognomica (i tratti del volto, lo sguardo) non è un’opinione – diceva Valery che se non si fosse mai visto allo specchio, se non avesse saputo come era fatto si sarebbe riconosciuto ugualmente se si fosse visto in una fotografia, semplicemente osservando nel viso i segni che la vita vi aveva impresso.

Questa gentilezza di carattere di Cacciari (che può leggersi come il risvolto esterno della sua straordinaria cultura) – che evidentemente non collide con momenti di più contingenti e solenni incazzature (non riesco a immaginare che brutti quarti d’ora devono avergli fatto passare quando andò a fuoco La Fenice) - oltre che dalla fisionomia mi pare si colga anche in certe modulazioni della sua scrittura, ad esempio in quello che io considero uno dei suoi libri più belli, forse il più bello e senz’altro il più filosofico, il libro del pensatore, Dallo Steinhof. Prospettive viennesi del primo Novecento, scritto ormai più di trent’anni fa, anche se poi rivisto. Si veda per esempio il capitolo sull’ineffabile, il riferimento a Agamben e a Wittgenstein, autori battuti e ribattuti, quel rimandare giustamente alle considerazioni di Agamben sulla dimensione dell’in-fanzia, cioè quella dimensione in cui non si proferisce ancora parola, quel vederlo come l’archilimite del mistico di Wittgenstein (che ne prevede l’esistenza alla fine del Tractatus), quel limite che permette al linguaggio di "definirsi correttamente",  e invece poi quel tratto di attenzione, di delicatezza col quale Cacciari cita le baggianate teologizzanti di Baget-Bozzo e Benvenuto su questo mistico di Wittgenstein:

ma per altri (come per Baget-Bozzo e Benvenuto, che affrontano il problema nell’ambito più strettamente teologico del dire o tacere Dio) l’ineffabile di Wittgenstein verrebbe anch’esso prodotto linguisticamente definendosi come funzione cardine di un decreto che sviluppato così suonerebbe: “io dico, io (qui) taccio”.

Aggiunge Cacciari con una grazia unica, disarmante:

ma non sta nell’essenza stessa del decreto la possibilità di essere trasgredito? e come va pensata allora la possibilità della trasgressione? (p. 135).

Verrebbe da dire, che il decreto di Baget-Bozzo e di Benvenuto,  nel caso venisse trasgredito, suonerebbe così:

“io taccio: io (qui) dico”

che non avrebbe più niente a che fare con l’inesprimibile, con l’ineffabile, ma con la ciarla perpetua.

Aristotele non andava troppo per il sottile invece nelle sue discussioni, e sicuramente uno dei tratti salienti del suo carattere, a seguire le modulazioni della sua scrittura, era il disprezzo dell’avversario se lo trovava cattivo combattente:

οὗτοι μὲν οὖν, ὥσπερ λέγομεν, καὶ μέχρι τούτου δυοῖν αἰτίαιν ὧν ἡμεῖς διωρίσαμεν ἐν τοῖς περὶ φύσεως ἡμμένοι φαίνονται (Metaphysica, 985a)

... questi dunque, secondo noi, e fino ad ora, considerano solo due delle cause che noi abbiamo distinto nei nostri scritti sulla natura

(nel caso di Baget-Bozzo e Benvenuto soltanto una causa, cioè Dio)

e lo fanno, dice Aristotele:

in maniera oscura, per niente chiara, nel modo in cui nelle battaglie agiscono quei soldati non esercitati. Anche questi infatti scorrazzano a destra e a sinistra e spesso menano anche dei bei colpi. Ma così come questi agiscono senza averne cognizione anche quelli sembrano non sapere quello che dicono, dal momento che non sanno farne uso se non modestamente.

(ἀμυδρῶς μέντοι καὶ οὐθὲν σαφῶς ἀλλ' οἷον ἐν ταῖς μάχαις οἱ ἀγύμναστοι ποιοῦσιν· καὶ γὰρ ἐκεῖνοι περιφερόμενοι τύπτουσι πολλάκις καλὰς πληγάς, ἀλλ' οὔτε ἐκεῖνοι ἀπὸ ἐπιστήμης οὔτε οὗτοι ἐοίκασιν εἰδέναι τι λέγουσιν· σχεδὸν γὰρ οὐθὲν χρώμενοι φαίνονται τούτοις ἀλλ' ἢ κατὰ μικρόν. Metaphysica, 985a)


O ancora, nella Fisica:

… e infatti le loro premesse (di Melisso e Parmenide) sono false e le conseguenze senza logica. Ma è soprattutto il ragionamento di Melisso a essere volgare e non crea problemi – una volta ammessa un’assurdità, tutte le altre procedono: in questo niente di preoccupante.

(καὶ γὰρ ψευδῆ λαμβάνουσι καὶ ἀσυλλόγιστοί εἰσιν· μᾶλλον δ' Μελίσσου φορτικὸς καὶ οὐκ ἔχων ἀπορίαν, ἀλλ' ἑνὸς ἀτόπου δοθέντος τὰ ἄλλα συμβαίνει· τοῦτο δὲ οὐδὲν χαλεπόν. 185a)