martedì 11 novembre 2014

successo e arte concettuale

Difficilmente il mondo potrebbe mettersi d'accordo su ciò che meritato e ciò che non lo è: anche e sopratutto in ambito letterario. Molto dipenderà dal punto di vista e dalla fortuna, dall'incontro fortuito, oltre che dalla lungimiranza e bravura tecnica se si mira a un successo postumo. Così Eupoli - grande avversarrio del "calvo", di Aristofane - nel noto frammento dei Battezzatori, che sicuramente scrisse contro Alcibiade, coi due interlocutori che pesano con le rispettive bilance il bene e il male e che fa pensare proprio ai due commediografi alle prese con le loro perenni accuse reciproche di plagio:

ἀνόσια πάσχω ταῦτα ναὶ μὰ τὰς Νύμφας.
πολλοῦ μὲν οὖν δίκαια ναὶ μὰ τὰς κράμβας.

Soffro l'indicibile per tutte le ninfe!
E molto giustamente per tutti i cavoli!

In realtà basterebbe poco ad ottenere celebrità: nessuno sforzo, nessuna tensione tecnica, nessun talento: servirebbe qualcuno che ci introduca nei posti giusti.

E mi ricordo una volta andai a trovare un amico che faceva il portiere in un condominio dove abitava un famoso cantante. Mi disse: "vieni, ti faccio vedere la casa". Mi fece vedere tutto: il grande salone, l'immenso pianoforte a coda, la collezione di ceramiche eccetera. Alla fine mi portò anche in camera da letto. Entrai nel bagno padronale (un comune bagno, a parte il doppio lavandino). Mi sedetti sulla tazza (ovviamente senza tirarmi giù i pantaloni) e dissi: "questa si potrebbe intitolare: successo!"
  

lunedì 10 novembre 2014

"figli cambiali" e il teatro antico

Si dice che i figli sono come cambiali. Le cambiali si usano poco, oggi, ma il senso resta. E tutta la storia dell'umanità occidentale apparirà costellata di padri che si lamentano dei figli: dei figli che non hanno pensieri, che dormono i proverbiali sette sonni e che poltriscono a letto fino a tardi - e almeno il sabato e la domenica le cose ancora oggi non vanno diversamente che nell'antichità .

Così in Chionide - secondo Aristotele uno degli iniziatori della commedia attica - un padre porta come buon esempio al figlio tutti quegli altri ragazzi che corrono ad arruolarsi: 

πολλοὺς ἐγᾦδα κοὐ κατὰ σὲ νεανίας 
φρουροῦντας ἀτεχνῶς κἀν σάμακι κοιμωμένους. (fr. 1)

ne conosco di ragazzi che al contrario di te 
fanno semplicemente buona guardia e che come letto hanno una stuoia. 

E così ancora Aristofane una sessantina d'anni dopo, nel grandioso inizio delle Nuvole: Strepsiade che si sveglia spesso la notte col pensiero dei debiti, mentre il figlio, nella stessa stanza, dorme tranquillo, e sogna e parla nel sonno di cavalli e corse, sogna lo stadio:

ἀλλ΄ οὐδ΄ χρηστὸς οὑτοσὶ νεανίας
ἐγείρεται τῆς νυκτός͵ ἀλλὰ πέρδεται
ἐν πέντε σισύραις ἐγκεκορδυλημένος. (8-10) 

ma nemmeno questo santarello di mio figlio
si sveglia la notte e anzi non fa che scorreggiare
tutto avvolto in cinque coperte di lana. 

Non alcune coperte ma cinque: interessato com'è giustamente al borsellino, ai conti di casa.

Come il topos della misoginia - per cui vedi quanto ho scritto sul punto - anche questo dei padri che si lamentano dei figli e nello stesso tempo cercano di tenerseli buoni doveva suscitare in teatro il riso a partire da una situazione che lo spettatore conosceva in famiglia, e da un ben congeniato contrasto di ruoli sulla scena. In effetti Fidippide (con un nome del genere "messogli dalla madre" avrebbe potuto amare soltanto i costosi cavalli) a un certo punto si sveglia anche lui e rimbrotta il padre che non lo lascia dormire. Molto, ovviamente, come sempre, era dovuto all'abilità degli attori.












domenica 9 novembre 2014

dell'ingratitudine e del miracolo

Gli ingrati non si rendono conto del meraviglioso che costantemente capita loro: sono talmente posseduti dall'immagine che in precedenza si sono fatti di colui da cui ricevono un qualche aiuto che pure in seguito continuano a vedere il benefattore nella stessa luce negativa. Che è quanto capita a Gesù coi farisei, che non riescono a vedere il miracolo e si accorgono soltanto che la guarigione è avvvenuta al di fuori dei giorni prescritti dalla legge: anzi lo aspettano addirittura al varco:

καὶ παρετήρουν αὐτὸν εἰ τοῖς σάββασιν θεραπεύσει αὐτόν, ἵνα κατηγορήσωσιν αὐτοῦ. [Mc, 3]

e osservavano attentamente per vedere se l'avrebbe guarito di sabato, in modo da poterlo poi accusare.

sabato 8 novembre 2014

il bene della misoginia, teatro antico, monachesimo

E' un peccato che non esista un termine correlativo di misoginia: si sarebbero scoperte le evoluzioni di un mondo parallelo a quello attuale. La donna in effetti non ha mai odiato l'uomo; è l'uomo che al contrario ha sempre odiato la donna senza poterne nello stesso tempo, affrancarsi, fare a meno: impossibile immaginare una qualsiasi casa senza la sua insostituibile presenza, pure nell'epoca ultimissima dei single: la presenza della donna è costante perfino nella casa di un single inveterato: che sia una madre, una fidanzata o una donna sognata: e l'economia (l'amministrazione della casa) è un fatto puramente femminile. Per questa ragione è incomprensibile che le donne si dian oggio tanto da fare per dimostrare di essere più brave degli uomini in politica o negli affari: la cosa dovrebbe andare da sé.

Così d'altronde gia Susarione, nella commedia aracaica, anzi addritttura l'inventore della commedia, secondo il Marmo Pario:

ascoltate o popoli: è Susarione che parla,
il figlio di Filino di Megara, Tripodiscio:
le donne sono un male e tuttavia, concittadini,
è impossibile abitare in una casa senza una donna:
così è un male sia sposarsi che non sposarsi.

[ἀκούετε λεῴ· Σουσαρίων λέγει τάδε,
υἱὸς Φιλίνου Μεγαρόθεν Τριποδίσκιος·
κακὸν γυναῖκες· ἀλλ' ὅμως, ὦ δημόται,
οὐκ ἔστιν οἰκεῖν οἰκίαν ἄνευ κακοῦ.
καὶ γὰρ τὸ γῆμαι καὶ τὸ μὴ γῆμαι κακόν. (fr. 1)]

Ovviamente ci sarebbe da chiedersi che cosa poteva trovarci di tanto comico uno spettatore ateniese in questi versi di Susarione, ma bisogna andare per associazioni, immaginarlo in quel momento col pensiero a ciò che lo aspetta a casa dopo il divertimento: alla moglie in ciabatte che passa da una stanza all'altra e urla e sbatte porte e sportelli: un pubblico che annuisce e sorride all'attore, lo spettatore che dà di gomito allo spettatore vicino.

Una compartecipazione della donna, anche negli affari più tipicamente maschili, risulta in ogni tempo talmente indispensabile che senza il pensiero di un suo costante ausilio non si possono immaginare  nemmeno quelle comunità da sempre le più misogine: le comunita monastiche maschili. Impossibile pensare a un monastero cisterciense che non metta al centro di ogni cosa la Madre di Dio: la Madonna ha per i cisterciensi  la stessa funzione che hanno le fondamenta di una casa per chi ci abita, e alle quali un tempo (vedi il discorso del muratore nelle Affinità elettive di Goethe alla posa della prima pietra di un pavillon) si dava un valore rituale che nel mondo del puro affarismo (le spaventose e pericolanti insulae della Roma repubblicana e imperiale e anche le grandi speculazioni edilizie dell'Ottocento)  non si sa nemmeno se siano cose da alieni. Gli originari monasteri cisterciensi erano d'altra parte dedicati esclusivamente alla Vergine. E non soltanto i cisterciensi. Non è un caso che in tutto il mondo benedettino la giornata si conclude ancora oggi - a parte rare eccezioni - col Salve Regina cantato in fondo a Compieta. E così fanno ancora i domenicani, che anzi furono i primi a introdurre nella liturgia questa antifona della Beata Vergine.

giovedì 6 novembre 2014

Politica italiana e amore ai tempi del colera

In italia, curiosamente, i telegiornali mettono al primo posto, nella loro scaletta, le notizie di politica interna. E credo sia dovuto, questo fatto, a quel movimento paradossale della sua esistenza di cui l'italiano è sempre stato inconsapevole. Infatti il peso delle notizie è in Italia inversamente proporzionale all'importanza che hanno. E questo si ricollega a sua volta alla natura teatristica del paese. Ma è un teatro di bassa lega. La politica italiana, coi suoi perenni guitti, assomiglia a quella scena di Morte a Venezia (sia il libro che il film) nella quale alcuni suonatori ambulanti suonano e cantano sguaiatamente di sera nel bellissimo giardino dell'Hotel des Bains, al Lido di Venezia, a far da cornice all'amore nascente (secondo il narratore tutto intellettuale) di Von Aschenbach (ma in odore oggi, comunque lo si guardi, di pedofilia) mentre il tenero quindicenne Tadzio risponde con la grazia dell'età ai suoi sguardi preoccupati e patetici. Un tedesco e un polacco, ovviamente. Niente a che fare coi sani costumi italici. Ma il quadro politico dell'idillio è tutto italiano. Non a caso uno dei guitti, prima di andarsene, saluta e ringrazia i ricchi clienti dell'albergo - il cosmopolita mondo superiore - facendo una mezza pernacchia, carica del più genuino disprezzo. Giustamente, immagino: dal momento che proprio questo guitto viene descritto da Thomas Mann e appare anche nel film di Visconti già coi segni del colera, e ben prima che il colera si rapprenda sul volto di Von Aschenbach, dello straniero.


la massima allerta, i vicini di Goethe e il sarcasmo di Diogene

E' commovente osservare uno stato, una città, un paese nei momenti dichiarati di massima allerta, quando il danno è ormai alle porte. Allora ci si dimentica del proprio piccolo orticello e tutti si muovono in direzione della non più possibile salvezza. Cosa che quando il male era ancora soltanto una possibilità, anche questa azione comune restava una semplice ipotesi. E allora si potrebbe inserire questo imponente movimento collettivo sotto la rubrica del mal comune mezzo eccetera. Che è ciò a cui sembra alludere Edoardo nelle Affinità elettive di Goethe:

... dazwischen fließt der Bach, gegen dessen Anschwellen sich der eine mit Steinen, der andere mit Pfählen, wieder einer mit Balken und der Nachbar sodann mit Planken verwahren will, keiner aber den andern fördert, vielmehr sich und den übrigen Schaden und Nachteil bringt. (VI)

...  nel mezzo scorre il torrente, contro le cui piene uno si proteggerà con pietre, un altro con pali, e ancora un altro con tavole e il vicino a sua volta con steccati, ma nessuno si fornisce reciprocamente un aiuto e piuttosto apporta danno e svantaggi non solo a sé ma anche agli altri.

Ciò che succederà in seguito, nel momento tanto temuto di una piena, viene invece descritto da Luciano di Samosata nel suo opuscolo su come di debba scrivere la storia, dove i Corinti terrorizzati dall'imminente arrivo di Filippo sono adesso tutti all'opera e non pensano ad altro che a prestarsi aiuto vicendevolmente: chi mettendo armi in comune, chi portando pietre, chi rafforzando il muro di cinta. Neppure Diogene, a cui nessuno si era rivolto o aveva assegnato un qualche compito specifico, fa mancare (anche se sarcasticamente) il suo effettivo aiuto, la sua presenza, il suo exemplum. E quando lo vedono far rotolare su e giù per il Craneo la sua botte, e qualcuno gliene domanda il senso, la ragione, Diogene replica candidamente:

Κυλίω κἀγὼ τὸν πίθον, ὡς μὴ μόνος ἀργεῖν δοκοίην ἐν τοσούτοις ἐργαζομένοις. (Quomodo historia, 3)

Faccio anch'io rotolare la mia botte, di modo da non sembrare l'unico inattivo in tutto questo darsi da fare.




lunedì 27 ottobre 2014

L'uomo perfetto e l'obsolescenza di Dio.

L'uomo perfetto, secondo Aristotele, non esiste. E non so nemmeno a chi interesserebbe quest'uomo perfetto se anche esistesse. Vedi pure la nozione di onestà e il dramma di Pirandello, che sposta il discorso al campo dell'etica. Esistono oggetti in ogni tempo considerati perfetti, che dovrebbero essere un riflesso della tendenza dell'uomo a interagire all'interno di un processo limitatizzante, per senso di compiutezza (perficio), o, che è lo stesso, della sua impossibilità a interagire all'esterno di tale processo. D'altro canto la perfezione di un oggetto, a cui la tecnica in ogni tempo mira, è in contraddizione con l'esistenza stessa della tecnica. Oggi un oggetto è considerato perfetto e nello stesso tempo deve avere un grado di obsolescenza elevatissimo, pena la morte della tecnologia, la chiusura delle fabbriche eccetera. La perfezione è quindi tanto più un mito, un inganno ideologico, quanto più si cerca di spacciarla per possibile, anzi realizzata. Questo ragionamento può applicarsi a qualsiasi settore dell'azione umana, e non soltanto all'azione ma anche alla contemplazione, dove la durata della visione di Dio si riduce a un tempo non infinitesimo ma minimo se il concetto di visione e quindi di narrazione (o auto-narrazione) indica durata. Il che toglie ogni valore che non sia propagandistico all'esperienza mistica, a meno che non la si voglia chiamare esperienza della massima obsolescenza di Dio. Vedi anche quanto detto nell'Inganno dell'ascesi e in Tempo divino e tempo umano.

domenica 26 ottobre 2014

la masturbazione femminile e l'imprendibile



Per quanto ne posso sapere della masturbazione femminile, da quel poco che posso aver capito da approfondimenti diretti o indiretti, l'unica cosa che mi viene in mente quando ci penso è che per la donna - almeno nelle modalità esteriori - non dovrebbe essere un'esperienza molto differente da quella di un uomo che ce l'abbia così piccolo che gli è assolutamente impossibile usare tutta la mano, e deve limitarsi a usare un paio di dita. Ma di quest'ultimo caso non ho praticamente esperienza e posso soltanto immaginare. Così come, a differenza della masturbazione maschile (per cui vedi quanto ho scritto in proposito) e nonostante tutti i discorsi "scientifici" sull'intersessualità, posso anche qui solo immaginare che cosa alla donna frulli in quel momento per la testa, quali immagini degne di un Arcimboldo riesca a mettere insieme per ottenere il quadro liberatorio dell'orgasmo. Insomma per un uomo la masturbazione femminile, checché ne dicano i soliti saccenti, credo si approssimi al concetto di imprendibile.

Portare acqua al mulino nero e al mulino arcobaleno

È difficile trovare un prete cattolico o luterano o anabattista o anglicano che non porti sempre e comunque acqua al mulino della rispettiva curia (ma è il loro mestiere), che non faccia giustamente politica pure durante un evento festoso, durante la celebrazione di un matrimonio, quando tutti non aspettano che la fine del comizio per correre al ristorante a ingozzarsi come oche pronte per il foie gras (“siete qui a celebrare il matrimonio che è tra maschio e femmina”, “Dio ha creato il maschio e la femmina” eccetera, non semplicemente tra uomo e donna, come in tempi più recenti con buona pace per tutti ci si era ormai abituati, ma come si diceva una volta, tra maschio e femmina, con la maggiore concretezza della Genesi: a far intendere anche ai sordi - o allo sposo nel caso covasse male intenzioni, e gli venisse in mente, ancor prima di essere sposato, di far indossare alla moglie un pene artificiale, uno strap-on - che l'incontro, in questo senso, deve essere non tra la carota e il bastone ma tra la carota e la cesta); e fa giustamente politica, il prete, perché i vangeli (ma stranamente in quello più teologico di Giovanni la cosa non compare) lo invitano da sempre a restituire a Cesare quel che è di Cesare. Facciamo un ultimo tentativo, via!, sembra dire il prete, poi restituisco a Cesare quel che è di Cesare.

In realtà, modificare anche di poco il linguaggio, cosa sempre auspicabile quando cambia il modo di sentire del mondo, quando cambia l'estetica, non farebbe torto a nessuno: né alla religione (che ha sempre e solo mirato a fare proseliti), né all'industria erotica (che ha interesse a favorire perversioni), e neppure al combattivo, agguerrito mulino gay (che vuole le sue parità): ma anche qui, adeguarsi ai nuovi tempi tornando a quei tempi in cui il linguaggio era più che oggi vicino al vero (non è questa l'epoca della  verità, della scienza?): Cesare – ormai dovrebbe essere noto – s’infilava da ragazzo nel letto del re Nicomede, e nel ruolo di femmina, tanto da meritarsi l’appellativo (che lo divertiva un mondo anche quando era imperator maximus) di regina di Bitina. Dunque perché chi scrisse i vangeli decise effettivamente di non proclamarlo? non rese immediatamente giustizia, non ordinò di restituire a Cesare oltre a tutto anche tutto il resto, tutto il maltolto e anche quindi la famosa cesta di cui andava fiero? perché nessuno ha mai predicato in tutta onestà e verità: restituite a Cesare quel che è di Cesarina?

Per dirla dunque alla greca, nel linguaggio dei vangeli, non

πόδοτε ον τ Καίσαρος Καίσαρι κα τ το Θεο τ Θε

ma

πόδοτε ον τ Καίσαρος Καισαρίνᾳ eccetera.

venerdì 24 ottobre 2014

Leopardi senza Leopardi e la bravura di Martone

È assolutamente patetico (nel senso di commovente) vedere un attore che prima interpreta una figura, un "personaggio" storico e poi va in televisione a dire che almeno quella è la "sua" interpretazione. C’è una tale pochezza di obbiettivi e una tale incapacità di autoanalisi nella odierna globalizzata società multitutto, e la televisione e il cinema hanno fatto un tale calderone e una tale accozzaglia di ogni cosa tra passato presente e futuro, che l’attore arriva a sentirsi nient’altro che onnipotente ("questa almeno è la mia interpretazione!", è il massimo che riescono a dire quando si rendono conto che qualcosa non quadra). Ci si provi a immaginare la propria vita, insignificante quanto possa apparire, e si provi poi a pensare che tra cento anni qualcuno la porterà sulla scena sulla base di qualche nostra lettera o email o di qualche nostro pensierino sulla vita e si misurerà tutta la differenza che ci può essere tra Leopardi e l'interpretazione di Elio Germano, che crede di poterlo finalmente rappresentare a partire dai suoi (di Germano) gesti sempre uguali, che lo fanno riconoscere subito per quello che è, per Elio Germano: la sua mimica facciale, i suoi occhi spaesati e non certo cilestri eccetera, e che si ritrovano in tutti i film nei quali ha “lavorato”. Come se il Leopardi poetico e filosofico, anche a non considerare il colore degli occhi, avesse il volto di Elio Germano.

Ci sarebbe forse voluto Alec Guinness, l’uomo dai mille volti, sempre irriconoscibile: “il più bravo, il più grande”, come scrisse di lui Arbasino alla sua morte. Anzi forse Leopardi avrebbe potuto somigliare per certi versi proprio al professor Marcus/Guinness di Ladykillers: gli ingredienti c’erano tutti: la vecchia signora (Louisa Wilberforce) che andava ammazzata era il padre di Leopardi (Monaldo), il pappagallo era la madre (Adelaide Antici), i componenti del gruppo cameristico, cioè i falsi suonatori, erano i vari mediocri (tra cui il Tommaseo) che l’hanno ostacolato in vita. Inoltre Danny Green, nella parte del tonto al seguito, avrebbe potuto essere l'amico Ranieri, gay velato ante litteram, altro che donnaiolo secondo il film di Martone. E il colpo al furgone portavalori era il tentativo dei suonatori di passare alla storia, serviti poi dal patatrac finale: non a caso il professor Marcus è l’ultimo a morire.  E in alcune scene Marcus appare pure piuttosto seedy, squallido (vedi la scena della cucina, quando cerca di convincere la vecchia a non denunciarli): un pastrano pieno di cimici che lo fa apparire un grandioso down and out.

E così era Leopardi, che amava pochissimo l’acqua, tanto che lo zio fu costretto a essere un tantino brusco in una lettera, invitarlo a lavarsi un po’, a usare ogni tanto il sapone: sporcizia che doveva formare un meraviglioso ossimoro con la bellezza dei suoi occhi, che mostravano nello stesso tempo due precise qualità, non certo lo spaesamentto di Germano: estrema bontà d’animo (gli sporadici attacchi d'irascibilità ne sono un ingrediente) e l'intelligenza divina (così almeno non può non vederlo chiunque abbia avuto la fortuna di leggersi anche poche pagine dello Zibaldone). Non bastano due urli o due incazzature o una scoliosi posticcia per fare Giacomo Leopardi: certe espedienti servono solo, in maniera surrettizia, a farti grande con ciò che non ti appartiene.