“L’uomo di cultura è tra tutti
i mortali uno dei più meschini. Non esiste altro essere alla sua altezza per pura pedanteria e mancanza di buon senso. Non c’è
per lui ipotesi troppo irrealistica, nessun fine è troppo impraticabile.”
Detto da
Frederic Harrison, storico e giurista inglese con ascendenze irlandesi, personaggio conosciutissimo e attivo negli ambienti positivistici inglesi di Oxford durante tutta la seconda metà dell’Ottocento (parte di un ampio brano che ho chiesto ai miei studenti all’università di analizzare nell’ambito di un seminario sul concetto di localizzazione nella traduzione).
Frederic Harrison, storico e giurista inglese con ascendenze irlandesi, personaggio conosciutissimo e attivo negli ambienti positivistici inglesi di Oxford durante tutta la seconda metà dell’Ottocento (parte di un ampio brano che ho chiesto ai miei studenti all’università di analizzare nell’ambito di un seminario sul concetto di localizzazione nella traduzione).
Per la verità era partito, Harrison, da
una considerazione molto semplice e concreta: che “la cultura è sì una
qualità desiderabile in un
critico letterario, in una persona che sappia scrivere bene (possessor
of
belles lettres) ma se il concetto si applica alla vita di tutti i giorni o alla
politica significa semplicemente una tendenza al sofistico (small
fault-finding), egoistico attaccamento ai propri agi, e indecisione nell’azione”.
Non so quanto questa immagine non sia apparsa vera in ogni tempo, in ogni società intellettualmente raffinata ma
capitalisticamente organizzata, nella quale il fare non può non essere inteso se non come "la giusta misura" - vedi per esempio
le Nuvole di Aristofane, dove il Socrate pensatore è
rappresentato sospeso nel suo canestro a scrutare il mondo dall'alto;
d'altro canto, una critica alla pedanteria degli uomini di cultura mi
pare veniva mossa ironicamente e paradossalmente proprio dal Socrate di
Platone a Prodico (e siamo appunto nel mondo dell'Accademia), nel Protagora, quando in
un primo momento, tornandogli ancora utile, lo chiama
in aiuto quale maestro di distinzioni sinonimiche: “c’è bisogno della tua arte, con la quale
distingui il volere e il desiderare” (ᾗ τό τε βούλεσθαι καὶ ἐπιθυμεῖν διαιρεῖς) - l'ironia socratica è appunto in quest'uso del verbo, distinguere (διαιρέω), lo stesso che si ritrova a fondamento del "suo" metodo dialettico delle distinzioni descritto in altri dialoghi, per esempio nel Sofista - mentre più tardi, sempre nel Protagora, quando non ha più bisogno di certe sottigliezze Socrate dice scherzosamente: “vi prego di abbandonare le sottili
distinzioni di Prodico sul significato delle parole” (τὴν δὲ Προδίκου τοῦδε διαίρεσιν τῶν ὀνομάτων παραιτοῦμαι). Nel Sofista sarà invece uno degli interlocutori di
Socrate, Teodoro, a riconoscere una certa mancanza di misura del
mondo intellettuale: “non è come dici tu, Socrate; questo straniero è di sicuro più moderato (μετριώτερος) di coloro che
sono sempre impegnati nelle loro dispute (intendi dispute tra pari, anzi compari, tra professori).
Harrison non era ovviamente
un accademico puro: era anche avvocato e partecipava attivamente alla vita del suo
tempo eccetera. E inoltre la cultura è vista qui semplicemente come strumentale.
Ciò non toglie che tutto ciò che dice degli "uomini di cultura" dei suoi giorni andrebbe oggi riferito agli intellettuali, una gran parte dei
quali impegnata nell’insegnamento universitario, ben pagata e ignara e
anzi
sprezzante di tutto ciò che non è di pertinenza del proprio piccolo io. Che è poi ciò che mi fece candidamente osservare un giorno un assistente di sala della Biblioteca Nazionale
di Parigi, col quale ero diventato amico: ”professore”, mi disse, “non c’è
mondo più egoista e più lontano dalla vita di tutti i giorni di quello degli
studiosi.”
Ma
sarebbe giusto chiedersi: quand'è che non si ha diritto di criticare la
propria casta? Di sicuro
quando si sa di farne parte e se ne godono i privilegi pur non volendo
ammettere di esserne parte. Ciò che sarebbe lo stesso che domandarsi se
un appartenente a
una qualsiasi casta può meritarsi di criticarla rimanendovi all’interno
(si veda il gesto di Bruno Zevi che abbandona l'insegnamento e può quindi permettersi
di chiamare l'ambiente in cui era fino a quel momento vissuto fogna universitaria; e in altro ambito vedi anche invece la indistruttibile torre d'avorio dei giornali,
soprattutto quelli italiani, i peggiori in Occidente, specificamente
Repubblica e Huffington Post Italia eccetera eccetera, veri potentati
economici, e vedi anche la loro più recente e ipocrita battaglia per la
depenalizzazione dei reati di opinione: battaglia circoscritta a difesa
della sola stampa, cioè della propria casta, quindi dell'indifendibile
sul piano più generale e della ricerca del consenso esterno, perché il buon
senso direbbe che un giornalista che firma un articolo falso e
diffamatorio dovrebbe finire in galera come chiunque altro se in conseguenza di quella
fetenzia qualcuno finisce col togliersi la vita; non si capisce
d'altronde il perché di tutto questo terrore che i giornalisti hanno del
carcere visto che una volta dentro potrebbero invece coronare nel
proprio piccolo quello che è sempre stato il sogno anche di firme
importanti: intervistare direttamente, in loco, nelle ore di socialità, grandi delinquenti e boss mafiosi eccetera eccetera).
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