lunedì 3 febbraio 2014

Il caffè avvelenato





Tomba di Marx al cimitero di Highgate


Posto qui un mio breve racconto inedito da Il carnevale di una logoterapista, una serie di quaranta storielle metropolitane che scrissi a Londra nel 1994, quando ero poco più che un ragazzino, e che non ho mai pubblicato nel loro insieme. Qualcosa era apparso su un paio di riviste londinesi.


SUNDAY INDEPENDENT


Una domenica di maggio in cui fuori l’aria era pregna di luce e di profumi entrò in un
Caffè Ristorante di Highgate una donna di mezza età, che il cameriere fece sedere a un tavolino davanti al banco. La donna, che aveva i capelli corti e portava dei jeans e una maglietta chiara, ordina qualcosa, poi si mette a sfogliare l’Independent. Agli altri tavoli chi sorseggia un cappuccino, chi un tè, chi un aperitivo. Oppure già sedeva a colazione dopo aver scelto dalla ricca gamma di sandwich o da alcune vere e proprie specialità della casa, le quali se anche diventano improvvisamente rinomate in un posto dove prima erano considerate inferiori dai buongustai è perché lo chef si è spostato e loro, gli intenditori, l’hanno seguito.
   Il cameriere dopo un po' le porta il suo espresso. La donna disse che lo prendeva con lo zucchero. Lui le fece osservare le belle zollette grezze nella ciotola di porcellana sul tavolo ma lei disse che quelle se le poteva essere messe in bocca qualcuno.
   “Se hanno una forma irregolare”, fissò il cameriere, “come faccio a saperlo?”
   Il cameriere restò un attimo perplesso. Un cliente che era seduto al tavolo accanto a gustarsi un’insalata alle zucchine disse che era improbabile:
   “Sono cose che non vede nemmeno al cinema.” Ma lei, che sfogliava e sfogliava l’Independent, disse che certa gente faceva anche di peggio.
   “Chissà che non farebbe!”
   Arrivò il manager, che aveva sentito tutto. Si scusa con madame ma quello era l’unico tipo di zucchero. Se voleva le portava un’altra ciotola.
   “Che cosa cambia?”, fa lei.
   Da dietro il banco il barman fece un cenno a Giorgio, il manager. Disse che in realtà avevano una zuccheriera, e si chinò a prenderla. Giorgio la piglia e la porta alla cliente, che però s’era accorta del maneggio, perché disse che se pensavano di fregarla in quel modo si sbagliavano. Prima di tutto il barman si era chinato e non si sapeva quello che aveva fatto sotto il banco. Inoltre lo zucchero chissà da quanto tempo era lì dietro.
   “E poi”, fa, “non usavate soltanto zollette?”
   Un’anziana seduta al tavolino a destra ingoiava bocconcini di petto di pollo alla salsa di miele. Apre la borsetta e le offre due bustine della British.
   “Sono sigillate”, le fa piano “le ho prese ieri in volo e io uso soltanto saccarina.”
    “Ma figuriamoci! ... E me lo spiega se usa solo la saccarina perché le avrebbe prese?”
   La vecchia riprese a mangiare e madame trionfò. Con gli occhi al giornale aperto annuiva soddisfatta. Il manager fattole mezzo ossequio disse al cameriere di lasciar perdere, che la signora lo prendeva amaro.
   “Meglio amaro che avvelenato!”, fa lei tra i denti.
   Giorgio avvampò: data un’occhiata ai clienti, tutti intenti ai fatti loro, scuote la testa come a compatirla poi ci ripensa e fatto un dietro front:
   “Prego?”, fa.
   “Niente.”
   “Come niente? se c’è qualcosa che non va lo dica. Non tolleriamo queste cose in un caffè famoso come il Café Ruge, soprattutto questo di Highgate.”
   “Io non ho parlato.”
   “Che cosa non ha parlato? l’hanno sentita tutti.”
   “E che cosa hanno sentito, sentiamo?”, e l’aria era leggera e trasparente come spesso accade in questo tipo di locali, ed è la condizione necessaria perché l'umidità di certe storie si rapprenda e si riassorba senza lasciare segni.
   “Lo vede?”, fa la donna. “Che si aspettava? La gente certe cose le sa, semplicemente tollera. Si farebbe ammazzare piuttosto che ammettere quello che beve.”
   “Beve che cosa, scusi?” fa il tipo che mangiava l’insalata.
   La donna disse che lo sapeva lui quello che beveva: certamente lei sapeva quello che beveva lei. E per un momento sembrò una logica a tutto punto. Ma poi tornò il buon senso, perché l’uomo le disse che veniva da tanti anni e non si era mai lamentato.
   “Certo, perché altrimenti chissà che dovrebbe dire.”
   “Ma se è caffè quello che ha davanti, non lo vede?”
   “Col caffè ci si può mischiare quello che si vuole.”
   Il cliente si offrì di berlo lui, ma lei disse che se lo beveva poi pagava.
   “E sì”, disse lui, “oltre il rischio anche le spese.”
   Dagli altri tavolini, chi guardò direttamente, chi guardò i quadri appesi alle pareti. Il manager, vero manager, restò calmo. Pregò solo l’habitué di non metterci il carico da novanta.
   Da un altro tavolo si offrì un altro cliente e disse che l’avrebbe bevuto e poi avrebbe anche pagato. Giorgio guardò la donna, lei approvò; e così la questione si avviava a un lieto fine, come accade spesso, nonostante certo pessimismo radicato nelle menti più per certa cinica e immatura autoindulgenza che per i contrasti di una solida esperienza. Giorgio fa per prendere la tazzina ma la donna sposta il lumino e il caffè si rovescia sul parquet.
   “Peccato!”, fa.
   Il manager le avvicinò la bocca all'orecchio e dovette sussurrarle di lasciare il locale e possibilmente di non rimetterci più piede. La donna disse che per lei era un controsenso e non capiva come si poteva prendere un black coffe al Café Rouge. Uscì lasciando una mancia al povero cameriere e gli disse piano, ma alcuni forse sentirono, che aveva voluto provare. E i fatti le davano ragione.

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