Il falso metodo deduttivo, usato nelle narrazioni dei romanzi gialli tradizionali, è
un'idealizzazione della metodologia dell’investigazione, la quale, se pure opera con parziali deduzioni, è nel suo insieme un risalire all’indietro, alla fonte, a un individuo che con le sue leggi logiche riesca a spiegare dei fatti di cui faccio esperienza, e che è tipico del metodo induttivo: conserva del vero metodo deduttivo (quello che definisce da subito la fonte originaria) solo l'apparenza dell'andare dal generale al particolare (dalla scena del crimine all'omicida); in realtà la sorgente non ce l'ha, deve trovarla. Ma la sorgente nella natura non ha causa in sé, e non ci
sarebbe sorgente se non ci fossero piogge eccetera. L’individuazione del
colpevole, quando lo si individua, è comunque sempre un brutale e non realistico tentativo di interrompere il
processo della vita all’interno del quale l’assassino si muove. Questa
impossibilità di fissare un punto preciso originario, una fonte primaria come causa ultima dell'omicidio, una causa nec plus ultra, le colonne d'Ercole al di là delle quale niente è più conoscibile, può essere osservato nelle faide, dove un omicidio dipende sempre
da un altro omicidio. Ed è talmente ovvio che una nozione di causa imbarazza da
sempre gli investigatori e la macchina della giustizia, che si è stati costretti
a introdurre fin dall'antichità il sinonimo di movente,
che è quanto di più aleatorio, non deterministico, possa darsi, e attorno al quale i castelli delle varie scuole psicologiche oggi più che mai si perdono e che
lascia sempre dubbi su dubbi anche nei profani, che continueranno a
dividersi tra innocentisti e colpevolisti. Diversamente dal concetto di
causa per come è definito nelle scienze sperimentali.
sabato 31 agosto 2013
Causa e tempo nella storia. Narrazione e investigazione
L’uso del principio di causa
nella narrazione storica (e del concetto di pretesto) sarebbe (se la storia in senso hegeliano esistesse) antistorico: lo faceva costantemente osservare Croce (era un po’
la sua bestia nera): è comunque un semplice scimmiottamento della metodologia delle
scienze sperimentali. Varrebbe la pena ripetere quanto Croce stesso affermava per
esempio nei marginalia alla Teoria e storia della storiografia: che cioè l’introduzione di questo principio
di causa interromperebbe qualsiasi
movimento (storico), "la storia si fermerebbe a un tratto". A Croce interessava ridurre tutto all’idea di storia contemporanea quale attività dello
spirito che riflette nel presente anche su eventi cosiddetti storici, cosa che però non cambierebbe lo
stato della questione; in effetti, un qualsivoglia evento non è altro che il risultato di
un infinito numero di cause, che è come dire che è il risultato di nessuna causa in
particolare. Introdurre di punto in bianco una causa particolare da cui si origini un
determinato evento equivale a bloccare
tutto il processo, tutta la processione, troncare in due con una zappa il corpo di un serpente. Lo stesso dicasi dell’uso del concetto di tempo. Tutto ciò
che si riesce a ottenere - pure in una narrazione non annalistica della "storia", una narrazione cioè che non enumeri i fatti uno
dietro l’altro in ordine cronologico, è una temporalizzazione parallela, il che equivale a contraddire tutta l'impostazione, a sottrarre ogni forma non
relativistica del tempo. E lo stesso vale per le enumerazioni annalistiche,
sicché ci saranno gli annali di un popolo e gli annali di un altro, ma non saranno altro che descrizioni cronologiche parallele, e che bisognerà in qualche modo
collegare orizzontalmente; si avranno quindi tanti tempi paralleli, e il tempo,
storicamente parlando, non potrà mai essere uno,
non potrà essere una infinita linea all’interno della quale mettere tutto in ordine; in altri termini ciò equivale ad affermare l’impossibilità – concetto ripetuto d’altronde anche da Croce - di una storia che
sia universale (mito mai veramente superato).
venerdì 30 agosto 2013
Lapidazione e carezze. Contrasto e contraddizione.
Ciò che distingue questi due giudizi della percezione - contrasto e contraddizione - è che nel primo caso vi è un rafforzamento e un gradimento, nel secondo una difficoltà, un imbarazzo, uno scandalo. Paradossalmente, la cosiddetta pietra dello scandalo, che sarebbe un semplice
mercoledì 28 agosto 2013
Disumano troppo umano. La luna di Goethe e le beffe di Carlyle
Selig wer sich
vor der Welt
Ohne Haß verschließt,
Einen Freund am Busen hält
Und mit dem genießt,
Ohne Haß verschließt,
Einen Freund am Busen hält
Und mit dem genießt,
Was
von Menschen nicht gewußt
Oder nicht bedacht.
Durch das Labyrinth der Brust
Wandelt in der Nacht.
Oder nicht bedacht.
Durch das Labyrinth der Brust
Wandelt in der Nacht.
Felice chi senza odio
si separa dal mondo,
e tiene stretto un amico al cuore
e con lui gode
ciò che dagli uomini non è conosciuto
o è trascurato.
Nel labirinto del cuore
costui vaga nella notte.
Traduco qui i versi
di chiusura di un ode di Goethe alla luna. Li ho ritrovati in una cartolina infilata in un libro dell'australiana Germaine Greer, la più famosa femminista del mondo. Non so nemmeno quanto li gradirebbe o apprezzerebbe oggi nonostante la luna sia da sempre un po' un simbolo femminile, materno, forse anche simbolo della compassione - e in passato Germaine Greer fu in effetti vittima di un suo gesto diciamo un po' troppo caritatevole: venne legata e selvaggiamente picchiata da una barbona che s'era portata a casa e a cui aveva dato coscienziosamente asilo. Donna contro donna: una poveraccia che voleva forse anche lei semplicemente mostrarsi condiscendente, compassionevole: comprendere il dramma interiore di una nota intellettuale, e può darsi che non sapesse o potesse farlo diversamente.
Questi versi di Goethe me li scriveva invece in quella cartolina anni fa - riproduceva un dipinto di Raffaello - un amico tedesco, col quale parlavamo e parliamo tuttora a volte in italiano a volte nella sua lingua a volte in inglese. Ha ereditato, questo mio sensibile amico, da suo padre un'immensa passione per la storia dell’arte e mi scriveva nella cartolina, per Natale, sotto quei versi, nel suo italiano appena tedeschizzato:
Questi versi di Goethe me li scriveva invece in quella cartolina anni fa - riproduceva un dipinto di Raffaello - un amico tedesco, col quale parlavamo e parliamo tuttora a volte in italiano a volte nella sua lingua a volte in inglese. Ha ereditato, questo mio sensibile amico, da suo padre un'immensa passione per la storia dell’arte e mi scriveva nella cartolina, per Natale, sotto quei versi, nel suo italiano appena tedeschizzato:
“Raffaelo quasi mai
mi piace, Goethe anche – questi versi sono un grande eccezione”.
Quando iniziammo a vederci - ci conoscemmo poco più che ventenni in un bar di Schwabing - mi portò dopo un po' nella villa
dei sui genitori subito fuori Monaco, una casa piena di scaffali, un riflesso dell’attività
di famiglia, una grande casa editrice di libri d’arte. Mi disse allora, mentre ci bevevamo una coca cola in giardino e sentivamo in lontananza il rumore delle macchine
agricole: "questi sono i veri rumori poetici ormai da cento anni, in campagna".
Da ragazzo mi sembravano poetici anche i piloni dell'alta tensione così solitari nei campi di fieno a maggio nella campagna italiana o quelli - visto che mi torna pure questa lontana immagine - di San Pedro in Calfornia, con sullo sfondo il porto industriale che allora mi pareva immenso. Come in fondo non potrebbero mancare di poesia oggi in città, per chi almeno ce lo vuol torvare, le continue sirene della
polizia e delle ambulanze e gli ossessivi intermittenti blip blip e suonerie dei cellulari del proprio vicino in autobus o in treno, e gli schermi e gli altoparlanti a tutto volume che mitragliano notizie una dietro l’altra lungo
le banchine nelle stazioni della metro e di cui non si fa in tempo a capire che relazione abbiano con la tua esistenza di ascoltatore forzato se non ti cali nell'elementare monotono meccanismo di imitazione rap.
Gli stessi suoni perciò a cui è abituato - e le stesse sirene che deve aver sentito - chi ha potuto vedere il corpo senza vita di
quel ragazzo bianco (un australiano) ucciso in America da tre teenager (due
neri e uno di sangue misto, che per l’America significa comunque nero). Un delitto sicuramente di stampo ideologico, prodotto di un miscuglio di vigliaccheria e odio razziale più che della noia, come
faceva osservare giustamente un lettore che commentava questa notizia sul sito di un giornale: “Questo crimine commesso da tre amici", diceva questo lettore, "è una conseguenza diretta e necessaria del
sistema capitalistico che mira unicamente a fare numero dividendo” E bisognerebbe aggiungere che mira a dividere in numeri pari e dispari. Era l’unico commento
interessante, gli altri pregustavano un più o meno feroce rassicurante compiacimento al pensiero che questi
ragazzi (o mostri) verranno con molta probabilità condannati a morte. Il più grande,
diciassette anni, nelle foto segnaletiche appare alto non più di un metro e
sessantatre.
![]() |
Tiepolo, i cavalli del carro del sole |
E si riesce tranquillamente a immaginarlo l’ambiente in cui sono vissuti questi teenager americani: non certo l’ambiente familiare, l’ambiente familiare non c’entra più niente. Si riesce a immaginare l’ambiente in cui sono cresciuti perché è lo stesso in cui sono immersi oggi, nel 2013, dalla testa ai piedi, i teenager di tutto il mondo, dalla Patagonia alla Colombia al Canada, dal Sudafrica al Marocco, dall'India alla Nuova Zelanda all'Islanda e pure nel tecnologizzatissimo Giappone (dove a primavera volano dai ciliegi in fiore leggerissimi, delicati petali rosa all'interno di parchi che sono per contrasto un incanto di templi silenziosissimi), e pure nella tecnologizzatissima Europa, dove i teenager hanno però ancora qualche difficoltà a mettere mano su pistole e fucili o a guidare una macchina a soli sedici anni. E quale sarebbe questo umanissimo ambiente nel quale crescono i teenager di tutto il mondo? Televisione coatta, internet coatto, film nei quali l'unica forma di apologia concessa è quella di una spettacolare ostentazione della forza fisica e della violenza; e ancora autopsie offerte con contorni di pietose sceneggiature a colazione pranzo e cena, inseguimenti a duecento all'ora apprezzati con lo stesso sorriso con cui si segue la Formula Uno, trasmissioni morbosamente e accuratamente costruite su immagini di infinite telecamere di sorveglianza abilmente posizionate e quindi uccisioni e aggressioni sempre più in tempo reale. E in lontananza (o in vicinanza) i pacifici, sereni social network: FB, Twitter e YouTube, e le loro bachechine giornaliere, dentro le quali e grazie alle quali essere sempre indistintamente in primissimo piano, con l'illusione di arrivare a toccare quella stessa notorietà di cui godono i vip del calcio del cinema e della televisione (sicuramente perché sprovviste, queste very important persons, non meno dei loro imitatori da casa, di una qualsivoglia briciola di talento, con una notorietà costruita a tavolino o, nel caso dei loro imitatori, a forza di tags con cui posizionarsi bene nei motori di ricerca). E si può quindi immaginare che razza di risultato restituisca l’imitazione di un prodotto già scadente in partenza e in cui l'uomo reale va a farsi allegramente friggere in una padella senza manici. Che manchi effettiva concretezza e rigore - o che manchi il minimo accenno di compassione - a questo modo di guardare al dolore altrui è irrilevante: l'importante è mostrare un eccesso che comporti un ritorno, che l'immagine eccessiva, lo choc (e sarebbe meglio ormai scrivere shock), collezioni migliaia di mi piace: perché ciò che effettivamente conta non è il sacro silenzio col quale si entra nella casa dove c'è un morto, quello che conta è ottenere col video di una tragedia la stessa visibilità, in numero di click, che otterrebbe un vip twittando in 114 caratteri l'ultima idiozia che gli viene in mente dopo essersi grattato il sedere appena aperti gli occhi. Tanto che non si direbbe niente di campato in aria se si affermasse che l’unica patente e potente ideologia alla base di questo dissociante e narcisico uso dei social network è nutrire il già poco socievole amor proprio di ogni uomo e di ogni donna, di Adamo e Eva, che quando non possono postare immagini raccapriccianti di un treno che deraglia a tutta velocità contro un muro di cemento si conosolano comunicando al mondo che hanno appena mangiato un tramezzino coi carciofini o che la gattina ha fatto i figli ciechi.
Diceva l’ideatore di FB che in origine ci fu una semplice intuizione: la necessità che tutti noi avremmo di tenerci continuamente aggiornati su ciò
che fanno i nostri amici. Così Socrate, che diceva che se anche la sua casa era piccola sperava comunque di riempirla di persone care, finirebbe per fare il classico baffo a un utente di un social network che oggi a quindici sedici anni può già contare su duemila amici in tutto il mondo (un imbattibile Nembo Kid, un vero ragazzo delle nuvole - così come Socrate fu rappresentato da Aristofane nelle Nuvole sospeso in alto nel suo canestrello che scrutava i poveri mortali). E mi sembrava quasi di vedere, guardando questa intervista a Zucker,
la bava dell’amor proprio colare a rivoli, anzi a fiumi di preziosa porpora (e la bava - a meno che non sia quella di un setter dal pedigree purissimo - non
arriva mai se non come sintomo di una qualche conosciuta patologia o di una visione priapica dell'esistenza). E
il fatto che nell’intervista questo personaggio, questo nerd o ex nerd, non faccia che snocciolare numeri su numeri mentre celebra il suo amore per l'umanità non è altro che la riprova che sta illustrando un'operazione di puro marketing mascherata da istrionico filantropismo: l'individuo cioè ridotto a quel numero che è sempre stato agli occhi di ogni regime o potere che si rispetti; o nelle mani di ogni business concreto o virtuale che voglia farne un consenziente zimbello e la cui unica legge è di riprodursi e moltiplicarsi miracolosamente secondo i canoni della favoletta dei pani e dei pesci. E sempre per restare in tema faunistico, lo zimbello non sarebbe poi altro che quell'uccello legato a un'asticella e usato dagli uccellatori per adescare altri uccelli.
Mi viene in mente un’immagine di Thomas Carlyle da vecchio,
il grande storico scozzese autore di Sartor
Resartus e della French Revolution,
che verso la fine dell’Ottocento ogni tanto saliva sull’Imperiale e andava a
farsi una passeggiata all’aria aperta. Arrivava nei sobborghi di Londra,
scendeva, si avvicinava alla dimora di questo o di quest’altro
insaziabile magnate, si aggrappava alle sbarre del cancello e cominciava a saltare come una scimmia
mostrando i denti feroci e famelici ai ricchissimi proprietari chiusi all’interno. Si faceva specchio
delle loro brame. E forse in qualche modo si rifletteva anche lui nelle sembianze di quei carcerieri carcerati dentro le loro splendide dimore. Non è infatti improbabile - faceva bene Ford Madox Ford a ipotizzarlo - che anche Carlyle, e insieme a lui Ruskin, Wilberforce e gli Holman Hunt (i Preraffaeliti), e tutti quei vittoriani non ricchissimi ma ugualmente ossessionati da una certa idea di agio e di benesssere materiale, non è improbabile che avrebbero anche loro fatto di tutto per schiacciare il nemico, avrebbero perfino fatto ricorso al gas nervino, dice Ford Madox Ford, se solo avessero potuto inventarlo, contro i loro amici diventati rivali.
Etichette:
amicizia,
Carlyle,
FaceBook,
Ford Madox Ford,
gas nervino,
Germaine Greer,
Goethe,
internet,
juvenile delinquency,
Preraffaeliti,
Raffaello,
razzismo,
Ruskin,
Socrate,
Twitter,
vip,
Wilberforce,
YouTube,
Zucker
martedì 20 agosto 2013
Rigore, quel grande sconosciuto. Arte letteratura teatro
Ripa autem ita recte definietur id, quod flumen continet
naturalem rigorem cursus sui tenens …
Sponda si definirà giustamente ciò che racchiude un fiume che conserva la naturale impostazione del
suo corso …
Traduco con impostazione
(più che con l'errato linea retta, che mi è capitato sicuramente di vedere) il latino rigor, utilizzato in questo frammento del Digesto di
Giustiniano per definire
il concetto di sponda di un fiume. E' uno dei pochi luoghi che conosco in cui rigor - che significa per lo più rigidezza in senso tecnico gia a partire da Lucrezio (dell’oro,
della pietra, del ferro) ma anche inflessibilità sul piano morale (Tacito) - è inteso in un senso più vicino all’italiano rigore quando si intende l’esecuzione
di un’opera, di un lavoro, la preparazione di una performance.
Etichette:
arte,
Damien Hirst,
Digesto,
Duchamp,
fiction,
Giustiniano,
Lucrezio,
Maggie Smith,
recitazione,
Tacito,
teatro,
Ulpiano,
università
Proust internauta e i wormholes
![]() |
Philippe E. Hurbain, Wormhole: panorama of the dunes |
Mi è capitato di trovare, anni fa, nei diari di Philippe
Sollers, un certo giocoso e nostalgico riferimento a Proust. Diceva Sollers che se Proust vivesse oggi
sarebbe senz'altro un indemoniato del fax, delle email e di tutto il resto, e che lo si vedrebbe sposare
pienamente la causa di Internet - ammesso, ovviamente, che Internet si proponga una causa, un qualche fine umanitario, e
che non sia semplicemente la più potente e cavernicola forma di retorica che la Storia conosca, basata come tutte le retoriche che si rispettino, sulla manipolazione e il controllo totale dell'individuo. A dire
il vero Sollers non diceva indemoniato, ma il senso
era quello, che cioè proprio Proust, colui che più di ogni altro era parso immerso nei discorsi sociali di un mondo chiuso ed esclusivo, si sarebbe gettato oggi anima e corpo in tutti i più minuti meccanismi e varianti globali di queste odierne e dissocianti tecnologie dell'annullamento di una distanza. E in effetti di Proust (e inevitabilmente del Narratore della Recherche) si conosce la passione per le invenzioni dell'epoca: il telefono ancora agli inizi col quale ascoltava i concerti da casa, la bicicletta di Albertine a Balbec, l'aereo ammirato a Versaille e nei pressi del castello della Raspelière ma poi oggetto temutissimo durante la guerra. Non era certo un nostalgico. E inoltre si conosce almeno un caso in cui il Proust anagrafico si divertì per qualche ora a impersonare il portiere di uno stabile nel quale abitavano alcuni suoi amici, professione da sempre lanciata nel più lontano e più moderno futuro.
Non credo tuttavia che Sollers abbia posto o indicato la questione nei termini giusti. Non ha molto senso chiedersi come sarebbe o cosa farebbe oggi un Leonardo, o come sarebbero Balzac o Stendhal o Montaigne. Fa venire in mente quegli uomini che dicono che se fossero donne farebbero sesso ogni cinque minuti. Porre la questione in questi termini svela semplicemente un sentimentalismo o un arrapamento di tipo senile, anche piuttosto preoccupante in un intellettuale di un certo calibro che dovrebbe tenere confinati i propri istinti al privato, pure in un diario da rendere pubblico.
Non credo tuttavia che Sollers abbia posto o indicato la questione nei termini giusti. Non ha molto senso chiedersi come sarebbe o cosa farebbe oggi un Leonardo, o come sarebbero Balzac o Stendhal o Montaigne. Fa venire in mente quegli uomini che dicono che se fossero donne farebbero sesso ogni cinque minuti. Porre la questione in questi termini svela semplicemente un sentimentalismo o un arrapamento di tipo senile, anche piuttosto preoccupante in un intellettuale di un certo calibro che dovrebbe tenere confinati i propri istinti al privato, pure in un diario da rendere pubblico.
Avendo scritto la mia prima tesi sugli influssi della poesia alessandrina in Catullo, per un certo periodo rimasi convinto di essere la sua reincarnazione, considerato che dopotutto si chiamava Gaio Valerio e che io pure mi chiamo Valerio, e che già al liceo amavo i suoi epigrammi e anzi li avevo riscrittti adattandoli ai miei tempi e intitolando quel lavoretto Catullo allo specchio. Così, un autunno di tanti anni fa, arrivando sul lago di Garda e andando subito a vedere i resti della supposta Villa di Catullo chiesi agli amici con cui ero di lasciarmi per un po’ da solo: volevo fare un semplice esperimento: misurare una volta per tutte l'effettiva distanza ontologica, se ce n'era una, che mi separava da Catullo. Mi sedetti tra le antiche pietre e restai in silenzio qualche minuto. Ma non sentii niente. E pensai che o io non ero Catullo o che quella non era la sua villa.
![]() |
ultima immagine di Proust |
Sarebbe più interessante chiedersi invece che cosa avrebbe da fare o cosa si troverebbe a fare uno
dei tanti scrittori che oggi vanno per la maggiore - ma anche uno dei tanti attori, musicisti, architetti o qualsiasi altro
personaggio pubblico convinto di essere qualcuno - di cosa si scoprirebbero appassionati se
venissero improvvisamente portati indietro nel tempo con lo stesso nome e
professione di oggi. E non so perché mi viene in mente una storiella morale di
san Bernardino da Siena, che racconta che un bel giorno un uomo che passeggiava per la via degli Speziali,
dove si sentivano nell'aria profumi e aromi di ogni genere, improvvisamente cadde a terra svenuto. Come ancora oggi succede, molte persone gli si fecero attorno, arrivò anche
un medico, che dopo averlo palpato e ripalpato chiese se qualcuno ne conosceva il mestiere. Quando gli dissero che faceva il
votatore di pitali, il medico sorrise e disse di portare dello sterco di cavallo. Come l'ebbe tra le mani, gliene passò un po’ sotto il naso e quello rinvenne.
Concludeva san Bernardino: voi ci ridete, et ecci da piangere.
mercoledì 14 agosto 2013
Eurialo e Niso: omosessualità in Plutarco, Virgilio e Leopardi
![]() |
J.B. Roman, Eurialo e Niso (Louvre) - foto Jastrow - Wikipedia |
τὴν μὲν πρὸς ἄρρεν´ ἄρρενος ὁμιλίαν, μᾶλλον δ´ ἀκρασίαν καὶ ἐπιπήδησιν, εἴποι τις ἂν ἐννοήσας
Traduco quasi letteralmente questo passo che si trova verso la fine dell’Amatorius, o Erotikós, il dialogo sull'amore che Plutarco scrisse agli inizi dell’era cristiana e di cui ho già accennato altrove:
del rapporto
sessuale di un maschio con un altro maschio,
Etichette:
aramaico,
Boileau,
ebraico,
Eurialo e Niso,
filologia,
Fondazione Valla,
Ippocrate,
ironia,
Leopardi,
omosessualità,
Plutarco,
retorica,
san Girolamo,
san Paolo,
sarcasmo,
stile,
Virgilio,
Vulgata,
Zibaldone
La persistenza della memoria: Dalì, Lorca e Neruda
![]() |
La persistenza della memoria - New York - Museum of Modern Art |
Non so se sia veramente un errore confondere esistenza anagrafica
e esistenza produttiva di un artista. Se così fosse, se fossero possibili tali accostamenti, bisognerebbe allora reprimere, davanti a una piccola grandiosa tela che letteralmente lascia abbagliati
venerdì 9 agosto 2013
L'abito fa la monaca: il razzismo dei ricchi
Oprah Winfrey, simpatica e nota conduttrice della tv
americana, considerata una delle donne più ricche e influenti del pianeta, ha
raccontato di essere entrata in un negozio di Zurigo, di aver chiesto una borsa
da ventottomila euro e di essersi sentita rispondere da un'impassibile e poco compiacente commessa svizzera che quell'oggetto non era adatto a lei, che costava troppo. La Winfrey ha subito tirato in ballo il razzismo e ne ha montato un caso galattico, sicuramente non ignorando che che più che
una questione di razzismo è stato un colpo al suo amor proprio: il fatto cioè che
una semplice commessa europea non l'abbia riconosciuta, non abbia riconosciuto una delle dee dell’etere statunitense, l'aver preso finalmente atto che esiste almeno una persona nel mondo che non l'ha proprio mai né vista né sentita nominare. Non so se la Winfrey sia
entrata in quel negozio della più esclusiva via di Zurigo in “ciavatte e bigodini”,
come si dice a Roma, e coi sacchetti della spesa in mano come una bag lady ma non capisco di che
razzismo cianci, né in che modo le sia venuto in mente. Sempre che non intenda quel noto razzismo alla rovescia: il fatto che la Winfrey, come tutti i ricchi di questo mondo, vede il
mondo capovolto. Ci sono persone infatti che trovano che sia altamente razzista presentarsi in un negozio e
chiedere a una commessa che guadagna mille e cinquecento euro al mese di mostrargli una borsa che ne costa ventottomila. E oltre che razzista la trovo una
cosa da far venire i conati di vomito se penso che lo stipendio annuale non solo di una commessa ma di un
infermiere di un cameriere di un professore di scuola di una domestica di un lavacessi di un poliziotto è la metà dei ventottomila euro che costa la borsetta che la
Winfrey voleva comprarsi.
Il calcio non è gay: è omoerotico
![]() |
Melchior d'Hondecoeter - Natura morta con galli e galline |
Il termine coming out
– letteralmente venir fuori, quindi uscita – presuppone soltanto che ci si trovi all’interno
di un qualcosa, di un luogo dal quale effettivamente poter uscire. È semplicemente una forzatura poi
identificare questo concetto dell'esterno con quello della luce del sole: posso venir fuori
da un posto chiuso restando in un altro posto chiuso più grande e che lo racchiuda: ad
esempio dall’ascensore alle scale. Sempre al chiuso sono.
L’ossesssione del mondo
gay per tutto ciò che non è gay (vedrebbero gay
dovunque e vorrebbero far fare coming out perfino ai santi), è un fatto
relativamente recente. Chi ha fatto il cosiddetto coming out, chi si è finalmente “liberato”, si sente paladino di una causa morale
e tende a considerare una qualsiasi manifestazione
omoerotica inconscia - anche quando cioè non c’è consapevole desiderio omoerotico - come
un fatto più che manifesto che lì ci sia qualcosa di gay e che in quanto tale vada esteriorizzato. Di queste frequenti
manifestazioni omoerotiche inconscie, gli sport
di squadra, soprattutto il calcio, abbondano: abbracci e effusioni in campo, baci bacini e bacetti dopo un gran goal ma anche dopo uno schifo di goal venuto soltanto per colpa di un girandolino a centro campo della squadra avversaria, palpatine eccetera; ma più che
il segno di un conscio desiderio omosessuale queste manifestazioni non sono altro che banalissimi gesti di affetto e
esultanza, la necessità di condividere con un amico o compagno di centuria un
momento di felicità o comunque gesti (le palpatine) che da che mondo è mondo sono codici comportamentali tipici dell’ambiente maschile giovanile, il segno di un sopito desiderio
anche fisico perché appunto codificato, l’unico modo in cui in una società globalmente
e potentemente eterosessuale, certi istinti possono rivelarsi. Nel gioco, appunto.
O nella lotta – si veda per esempio la lotta tra due maschi nel film Donne in amore
di Ken Russel, o le scosse erotiche nel recentissimo Tensiòn sexual 1 dei registi argentini Marco Berger e Marcelo Mònaco, e si capirà molto di questo tipo di desiderio controllato, codificato.
Ma di qui a dire che due uomini che fanno a botte o un calciatore che palpi le
natiche di un altro calciatore sia gay ( o anche semplicemente omosessuale) ce
ne passa e ce ne passa parecchia, ci passa tanta acqua quanta ce n’è nell’oceano
Atlantico tra le due sponde.
A parte la questione omoerotismo, c'è da dire che non significano la stessa cosa nemmeno omosessualità e essere gay (parola bruttissima, senza spina dorsale e che
fa scappare tutti - somiglia a un miagolio ed è strano che i gay non se ne siano
mai accorti). Non comportano le stesse ragioni queste due parole
perché "gay" riflette originariamente un’istanza politica che però
oggi ha perso anche quel po’ di forza
rivoluzionaria che aveva agli inizi, all’epoca degli eventi di Stonewall, il
noto bar di travestiti a New York da cui si originarono a seguito di un pestaggio della polizia omofoba i violenti scontri che tennero sotto scacco il Greenwich Village per tre giorni; il primo termine invece (omosessualità) definisce un insieme di pulsioni e desideri e comportamenti ed esula dalla sfera politica in senso
stretto, di impegno politico e civile, di chi combatte anche
seriamente, sotto questa etichetta, per l’acquisizione di diritti per le coppie dello stesso sesso. A parte
quindi la non assoluta possibilità di identificare visione gay della vita e comportamenti
omoerotici e omosessuali, viene anche da chiedersi quale senso abbia (se non di
presunzione) dire a un grande calciatore, a uno cioè che ha un ego smisurato, e che
spesso ha pure un talento smisurato, che tocca il cielo con un dito, come si
fa a dire a una persona del genere: devi fare coming out. La prima cosa che mi viene in mente è che un calciatore
così impostato - che il gay vorrebbe tirare nel mondo gay come il mugnaio tira l'acqua al proprio mulino - ti faccia quand'anche sia dedito a amori
omosessuali una sonora pernacchia e che finisca magari per dirti: "gay per questa volta ci sarai tu, a me di uscire dentro un ghetto non interesssa proprio un bel niente, non ho bisogno di nessuna etichetta in fronte. Se pure perde tempo a risponderti.
C’è poi il caso di Cecchi Paone, il giornalista che ha fatto coming out e
che ogni tanto si azzuffa, per la verità in maniera anche divertente, col mondo ufficiale
del calcio. Mi è capitato diverse volte di sentirlo parlare in qualche
intervista. Ma non mi pare che usi la parola gay, o almeno le volte che mi è
capitato l’ho sempre e soltanto sentito usare termini come omoerotismo,
o omosessualità. Ha pure scritto un
libro su omosessualità e sport nel cui titolo non compare la parola gay e non so se e quante volte l'abbia usata all'interno perché non l'ho letto. Cecchi Paone però è cosa diversa: si diverte a
mettere il dito nell’ipocrisia del mondo calcistico, e se anche la sua è una battaglia diciamo così etica fa prendere poi felicemente alla questione i toni divertenti del botta e risposta tra due ragazzini; non è comunque un caso che reagisca come reagisce ogni volta che sente un dirigente o un calciatore dire che
nel calcio non ci sono maschi che vanno con altri maschi. Lo invitano a nozze.
Pure a non considerare il carattere altamente omoerotico di un qualsiasi gioco di
squadra (come fai a non pensare di dare il meglio anche e soprattutto perché - a parte i milioni che guadagni - i tuoi compagni di
squadra ti stanno guardando e vuoi essere ammirato anche da loro?) è pure una palese assurdità,
che dimostra non solo ignoranza della storia ma pure della natura se anche i
cagnetti che si vedono scodinzolare nei giardini pubblici e nei parchi si annusano a tutto
spiano, sia maschi con femmine che maschi con altri maschi. Ma spezzo qui una lancia in favore dei gay. In Shalespeare si trova il termine nosegay (letteralmente, nell'antico inglese, ornamento da avvicinare al naso, mazzetto di fiori che l'innamorarato regalava all'amata) e a quell'epoca a teatro i personaggi femminili erano interpretati esclusivamente da uomini.
mercoledì 7 agosto 2013
Amor proprio, antidoto e letteratura
"… perché il sacrifizio precisamente per altrui non è
possibile all’uomo …" Così Leopardi nello Zibaldone (67) a conclusione di un
pensiero attorno all’amor di patria e a tutte le cose giuste e anche alle sciocchezze
scritte prima di lui su questo argomento. In altri termini, nota Leopardi,
l’amor di patria non sarebbe che una forma mascherata
Iscriviti a:
Post (Atom)